Quando si parla di mondo ebraico, spesso si sente nominare la parola midrash.
Spiegare in un articolo cosa sia è impossibile e quindi il mio è solo uno spunto per invitarvi a ulteriori approfondimenti.
Come sempre è bene partire da un discorso filologico; il termine midrash deriva dalla radice ebraica darash che significa «investigare, cercare». Con questa parola s’intendono due concetti: il metodo interpretativo applicato dai maestri – rabbanim– alla Torah e il corpus di testi – midrashim – che seguono tale metodo.
L’obiettivo è spiegare passi biblici per insegnare la legge ebraica e far emergere il suo valore morale e di insegnamento di vita. Come più volte accennato, il mondo giudaico è caratterizzato dall’ortoprassi.
Nella Torah si legge infatti «Faremo e ascolteremo». Alle nostre orecchie moderne un versetto così suona strano perché siamo soliti seguire il percorso contrario, ovvero prima ascoltare per poi valutare il da farsi. Il versetto deve però essere letto nella giusta logica: in questo fare – che non è cieca obbedienza di persone prive di ragione, ma atto di fiducia verso il Creatore – si comincia ad apprendere l’ascolto della Parola. Lo stesso abbandono di Gesù alla volontà di Dio, nonostante il desiderio di non bere un calice amaro, è così inscrivibile e spiegabile nel suo essere ebreo che vive la fede nella fiducia completa verso il Padre.
La Torah è stata scritta in un determinato momento storico, ma si rivolge, per il credente, a ogni uomo di ogni epoca: il testo biblico è infatti un testo sintetico, che va interrogato per poter scorgerne le risposte. È lì che opera il midrash, con la logica di interpretare la Torah che, in quanto Parola di Dio, non può essere racchiusa in un’interpretazione definitiva e unica; come suggerisce una bella immagine rabbinica, la Torah è come una roccia che viene colpita con un martello da cui scaturiscono milioni di scintille, le sue infinite interpretazioni. Tutto ciò non è però frutto di atteggiamenti arbitrari: l’interpretazione segue infatti regole molto precise e stringenti, le middot, il cui termine significa misure. Il metodo midrashico dà valore a ogni piccola parte del testo: ogni singolo punto, congiunzione, lettera, persino gli spazi bianchi hanno un’importanza specifica e creano legami con le diverse parti della Torah come una collana di perle tenute insieme da un unico filo. Questa corrispondenza tra le parti del testo permette di leggere la Bibbia ebraica – e secondo alcuni esegeti anche il Nuovo Testamento – come un gioco di specchi con continui rimandi. Dei diversi livelli interpretativi – letterale, allegorico, omilitico e segreto – il midrash riprende quello allegorico e omiletico.
Il sistema ermeneutico del midrash ha dato vita a un corpus di testi, i midrashim, che possono essere di due tipologie: halakici, che trattano solitamente temi giuridici, e agghadici, legati al discorso omiletico e quindi più narrativi. Il midrash agghadah è infatti più semplice e attraente perché fa spesso ricorso a proverbi e racconti a cui anche Gesù, nella sua predicazione, attingeva.
La bellezza dell’ermeneutica rabbinica – che ha inciso in parte quella evangelica – è racchiusa nella sua capacità creativa di dare la vita con la Parola lungo tutto il percorso storico dell’umanità e anche oltre.
È quel metodo che ci consente di abbeverarci a una fonte inesauribile che stupisce e allarga il cuore dando enorme importanza a un quasi invisibile iod – la lettera più piccola dell’alfabeto – fino alle parole più complesse perché nulla va mai perduto della Parola di Dio, neppure uno spazio bianco che si riempie della Sua grazia.
Nel percorso cristiano si è spesso guidati a leggere il Nuovo Testamento come compimento della Bibbia ebraica che viene illuminata dalla figura di Gesù: molti passi della Torah acquistano infatti una diversa lettura alla luce della figura di Cristo.
Se da una parte questa visione è indispensabile al mondo cristiano, dall’altra occorre però farne una di senso contrario che non è la sua opposizione: la definirei invece complementare alla comprensione del messaggio evangelico. In termini pratici significa prendere un passo neotestamentario e cercare di leggerlo alla luce del mondo giudaico, con le categorie giudaiche; del resto le parole di Gesù sono il risultato del mondo ebraico in cui è inserito. Se però si estrapola la sua persona dal contesto di partenza, si rischia di dire cose errate e fuorvianti.
Un esempio può essere il passo di Matteo 10, 34-36: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.».
Stando a una lettura immediata, Gesù qui sembra dirci che a causa sua ci saranno guerre; nei secoli questo passo è stato letto anche come giustificazione a combattere in nome di Dio (il famoso «Dio lo vuole»).
Partiamo da due presupposti. Il primo riguarda un discorso prettamente storico: guai a giudicare momenti storici passati con la mentalità contemporanea! Con questo schema non si salva nessuna epoca, neppure quella rinascimentale che è stata una di quelle più ricche in quanto a bellezza. Come spesso dico, la Storia si legge con gli occhi del presente ma non con i suoi parametri. Il secondo presupposto è di matrice biblica; Gesù era un ebreo e il mondo ebraico si basa sulla discussione della Parola di Dio. Il periodo in cui visse era pieno di correnti fra loro opposte che, partendo dallo stesso testo biblico, ne davano letture contrastanti. Questa è la caratteristica del mondo giudaico, ovvero la costante interpretazione del testo e le numerose diverse letture che ne conseguono. Il tutto è modulato dalle middot, le regole interpretative, affinché nessuno si alzi al mattino improvvisando letture arbitrarie. Occorre quindi una buona cultura che il maestro di Nazareth aveva così come altri suoi contemporanei, farisei in primis. Le discussioni riportate nel Vangelo erano all’ordine del giorno, non erano contrapposizioni piene di livore, ma il modo di procedere degli ebrei che anche attualmente è in vigore nelle yeshivot, le scuole talmudiche sparse per il mondo. Viene chiamata «la guerra della Torah» dove gli alunni, guidati da un maestro, discutono il testo per far prevalere un’interpretazione sull’altra; è un combattimento verbale fatto per il Cielo che, seppur abbia uno che prevale, non rende l’altro un perdente perché la Parola di Dio non dà vincitori e vinti.
Questa dicitura, guerra della Torah, non richiama l’immagine usata nel passo di Matteo sopra citato? Ecco un esempio di possibile lettura del Vangelo alla luce della Torah che non vuol dire solo alla luce di un determinato versetto, ma del mondo giudaico nella sua complessità.
Di fondamentale importanza è poi la conoscenza della lingua ebraica; ogni lingua è chiave di accesso al mondo in cui si plasma. Il Nuovo Testamento è scritto in greco (sebbene esista la versione in ebraico per le comunità cattoliche ebreofone di Israele, ma è il frutto della sua traduzione nella moderna lingua dello stato), ma la Torah è scritta in ebraico. Per conoscere la Torah occorre quindi conoscerne la lingua dato che l’ermeneutica rabbinica non si può fare sulla base della lingua di traduzione, ma solo su quella originale. Da una parte tutto ciò potrebbe inibire: chi ha il tempo, le capacità e l’energia per entrare nella Bibbia ebraica per poi riuscire a comprendere meglio il Vangelo? Di fatto pochi si imbarcano in operazioni così complesse che richiedono decenni di preparazione.
La fede è una relazione, Dio desidera questa relazione con l’uomo indipendentemente dalla sua cultura. Bisogna però almeno avere la consapevolezza che questa relazione si basa su un testo e che questo testo ha diversi livelli di lettura. Magari non tutti saremo studenti di ermeneutica rabbinica, ma tutti abbiamo un cuore e un’intelligenza e possiamo scegliere se porci o meno certe domande. Nel caso volessimo poi approfondire, esistono testi, corsi, persone che possono aiutare ad acquisire certe conoscenze. La cosa fondamentale, che questo mio articolo vuole suggerire, è che ci sia la consapevolezza che il Vangelo è un testo ebraico sebbene scritto in greco, un testo che quindi da una parte illumina certi passi della Torah nell’ottica cristiana, dall’altra è illuminato dalla Torah perché sua base biblica di partenza.
Da qualunque lato si guardi la cosa, resta una certezza: che la Parola è immensa e meravigliosa e solo per questo vale la pena conoscerne qualche pezzettino in più ogni volta che se ne ha l’occasione.
Nell’anno santo appena indetto da Papa Francesco e in vista della giornata del dialogo ebraico-cristiano del 17 gennaio, diventa importante approfondire il tema del giubileo ebraico.
Se alcuni concetti di fondo rimangono comuni alle due fedi, è bene al contempo sottolinearne le differenze perché il giubileo biblico non è quello cattolico.
In questo articolo di inizio 2025, cari lettori, darò solo alcuni spunti di riflessione lasciando come sempre alla vostra curiosità la voglia di approfondire nel dettaglio il tema trattato.
Partiamo innanzitutto dalla lingua; il termine deriva dalla parola ebraica yubel che indica talvolta alcuni tipi di animale (agnello, montone) talvolta il corno di questi animali, strumento per richiamare a raccolta il popolo in diverse occasioni. Il giubileo è infatti indetto col suono di questo corno a Kippur, il giorno dell'espiazione, evidenziando un chiaro legame col concetto del perdono.
Il riferimento di base è un passo del Levitico (Lv 25, 10): «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia».
La prima importante osservazione da fare è che il giubileo biblico ha un carattere stanziale, non prevede spostamenti o pellegrinaggi nella città santa come altre feste (Pesach, Shavuot, Sukkot); la dimensione spaziale non è prioritaria, lo è quella temporale, anche se la conditio sine qua non è vivere in terra d’Israele per poterlo indire.
Perché ogni 50 anni? Questo numero ricorre spesso nella Torah (pensiamo ad Abramo che, nel parlare con Dio a Mamre per salvare Sodoma e Gomorra, comincia con l’ipotizzare la presenza di 50 giusti). È un multiplo di 7 più 1 (dove 1 è il numero sacro per eccellenza perché identifica il Creatore); 7 è un altro numero fondamentale perché è il numero dei giorni della creazione. Lo shabbat − giorno di riposo dove l’uomo si ferma, un tempo in cui dare priorità a Dio e ai legami, comandamento anti-idolatrico per eccellenza − ricorre appunto il settimo giorno della settimana. Ogni 7 anni nel mondo ebraico ricorre l’anno sabbatico per mettere a riposo la terra (uno shabbat lungo un anno in pratica) e ogni 7 anni sabbatici, 49 quindi, fa seguito l’anno giubilare, il cinquantesimo.
Per comprendere il significato di questa ricorrenza, occorre fare mente locale sulla situazione storica; quando Giosuè prende possesso della terra, lo fa nella consapevolezza che essa è di Dio è che gli esseri umani ne sono solo inquilini. Provvede così a dividere la terra tra le tribù di Israele all’interno delle quali la divisione viene fatta tra le famiglie che le compongono; può capitare che, per indebitamento o altre ragioni, si perda la terra. Questa perdita però, nel concetto giubilare, non è eterna e viene ripristinata ogni 50 anni proprio in virtù del fatto che la terra è solo di Dio e non dell’uomo. L’imperativo del giubileo è triplice: riposo della terra, condono dei debiti, liberazione degli schiavi. Ognuno di questi punti richiederebbe un lungo approfondimento che all’interno di questo articolo risulterebbe riduttivo; mi limiterò quindi a ricordare che il mondo antico, quello semitico in questo caso, funzionava secondo impostazioni diverse rispetto al nostro attuale e anche la concezione di schiavitù non è da intendersi nella modalità odierna. Dobbiamo sempre ricordare che la Storia non può essere letta se non con gli occhi del presente, ma con occhiali speciali che facciano focus sul periodo preso in esame: diversamente si rischia di emettere sentenze grottesche e sbagliate.
Il concetto di yubel si lega così alla terra d’Israele e alla permanenza del popolo su di essa ed esplicita l’idea che esista un tempo di cambiamento, una nuova partenza per tutti; in quest’ottica la giustizia impera perché, con la remissione dei debiti, si evita la povertà endemica, col riposo della terra si rispetta il creato. Tutto questo reso possibile dal perdono.
È un progetto di enorme portata, ragione per cui sorge spontaneo chiedersi se storicamente il giubileo biblico abbia avuto luogo; sono molti a ritenere l’evento poco probabile, a ogni modo non si hanno tracce certe della sua applicazione. Del resto si possono intuire i problemi logistici relativi che lo rendevano difficilmente applicabile (per esempio come lasciare a riposo la terra per due anni di fila, quello sabbatico e quello giubilare, e nutrirsi). Inoltre, come detto in premessa, la conditio sine qua non è la possibilità che il popolo viva nella terra di Israele, presupposto non sempre possibile viste le diaspore e le prigionie in altri paesi. Oggi giorno questa condizione è soddisfatta dall’esistenza dello stato di Israele, ma bisogna fare due riflessioni in merito. La prima è una riflessione meramente numerica: quando il testo di Levitico fu redatto, il popolo sulla terra di Israele era numericamente inferiore rispetto a oggi, motivo per cui la divisione e restituzione della terra aveva un andamento diverso. La Torah inoltre non affronta il caso di aumento della popolazione. Altra importante considerazione è che l’attuale stato di Israele, con buona pace dei suoi detrattori che lo equiparano a stati teocratici, non segue la normativa biblica, è retto da principi di democrazia applicata come lo è quello italiano. Il riferimento alla Bibbia è parte della vita dello stato, della cultura, ma non disciplina in toto la vita del popolo. Detto in altre parole, non mette in atto la condizione storica descritta nella Torah.
A prescindere da questa presa di coscienza che il giubileo biblico è qualcosa di più utopico che reale, rimane il grande valore dei principi che esprime, principi che possono suggerire comportamenti di giustizia e perdono nelle relazioni col fratello.
L’anno giubilare cattolico è nato, si è sviluppato e ha preso forme in un contesto storico differente rispetto a quello biblico; a partire dalla cadenza venticinquennale, dall’invito a recarsi in luoghi santi di pellegrinaggio e dalle motivazioni di indizione (si veda la bolla papale del 1300) se ne distacca. Restano l’omonimia del termine e il riferimento concettuale alla remissione dei debiti da intendersi in senso spirituale però, non materiale.
Conoscere le radici del cristianesimo comporta conoscere la Torah, ma al contempo occorre capirne le differenze tutte volte a creare ricchezza, mai sottrazione o impoverimento spirituale.
Il suono dello jobel © VATICAN NEWS
Per migliorare l'esperienza di navigazione delle pagine e di fruizione dei servizi, questo sito utilizza cookie tecnici e analitici. Cliccando conferma, acconsenti all'uso dei cookie. Cookie Policy.