Nel mio recente tour romano, ho scelto di visitare i fori imperiali, una passeggiata che consiglio a tutti di fare: ci si perde nella Storia, tra vie antiche e resti archeologici meravigliosi.
Mi sono soffermata a lungo presso l’Arco di Tito, un monumento fondamentale della storia romana e di quella ebraica.
Lo stesso ghetto ebraico – costituito a metà del 1500 sul modello di quello veneziano – è a pochi passi da questo monumento e, per chi volesse, si può fare un tuffo a piedi tra i suoi vicoli alla scoperta della comunità ebraica più antica d’Italia, magari assaporando i carciofi alla giudia, tipico piatto della cucina ebraico-romanesca.
Nell’Arco di Tito, sulla parte interna, è scolpita la menorah del Tempio di Gerusalemme portata in trionfo nella capitale; si ricorda la sconfitta degli ebrei, sussurri dolorosi di un passato tra il suicidio degli zeloti a Masada e la distruzione del Tempio a opera di Tito nel 70 d.C., data che segna l’inizio della diaspora.
La menorah – con cui in ebraico moderno si traduce il termine lampada – è un candelabro a sette rami, uno dei simboli più antichi del popolo ebraico; possiamo trovare una sua descrizione su forma, dimensioni e materiali nel passo di Esodo 25-31. Il numero sette è fondamentale, rappresenta l’integrità, la perfezione, e ha diversi significati. Per alcuni richiama i sette giorni della creazione, secondo altre interpretazioni rappresenta l’ideale dell’illuminazione universale: il ramo centrale indicherebbe la luce di Dio da cui prendono vita gli altri rami che rievocano la conoscenza umana. Si parla anche di una rappresentazione simbolica del roveto ardente di Mosè, altri la associano all’albero della vita.
Il termine menorah deriva dalla stessa radice della parola or che significa luce; alimentata quotidianamente con olio di oliva dai Cohanim, si trovava nel santuario e, alla sua distruzione, fu trafugata dai romani che lo portarono in trionfo a Roma, evento appunto scolpito nell’Arco di Tito. Attorno a essa ci sono diverse leggende e ipotesi: una sostiene che quella trafugata da Tito non fosse l’originale, ma una copia, e che l’originale sia nascosta ancor oggi in qualche luogo.
Non è da confondere con la hannukkiah, il candelabro a nove rami che spesso si vede esposto nelle piazze del mondo durante Hannukka, la festa delle luci che rievoca il miracolo dell’olio durante la rivolta maccabaica.
L’Arco di Tito è stato a lungo un monito doloroso per il popolo ebraico; gli ebrei per secoli si sono rifiutati di passarci sotto, ma sono andati lì a festeggiare la proclamazione dello Stato di Israele nel 1947 – sancita con la risoluzione ONU 181 –, una sorta di riappropriazione del simbolo in segno di vittoria, una chiusura simbolica di un cerchio storico che aveva segnato l’inizio di una lunga diaspora.
I simboli, specie se antichi, hanno una forte valenza, indicano qualcosa a cui aggrapparsi nei momenti di gioia e di dolore e questa menorah scolpita nell’arco ne è un esempio.
La menorah è uno dei tanti simboli del mondo ebraico alcuni dei quali adottati dal mondo cristiano (uno su tutto la kippah, lo zucchetto che fa da copricapo al Papa e altri prelati).
Conoscere l’origine dei simboli di un popolo è fondamentale per capirlo, per conoscerne la storia e comprenderne i gesti.
In Israele la menorah è diffusa ovunque; alcune sono iconiche come quella davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, una replica di quella del Tempio.
I simboli richiamano concetti, significati religiosi o laici in cui parte dell'umanità si identifica; dalle bandiere agli oggetti, proprio per la loro importanza, ci deve essere responsabilità nel loro utilizzo pubblico che dà forti segnali.
Il loro abuso porta infatti fratture profonde, la mancanza di rispetto crea dolore a coloro che in quel simbolo si identificano.
La conoscenza è lo strumento per eccellenza per creare senso critico e senso di responsabilità gli uni verso gli altri; aiuta a costruire ponti con altre culture e a sconfigge l’ideologia, uno dei mali più gravi della nostra società, il vero e disastroso risultato di prese di posizione limitate e granitiche che, alla lunga, portano al fondamentalismo con cui il mondo si disgrega.
Arco di Tito, Roma © fotografia di Maria Elisabetta Ranghetti
Tra i tanti aspetti fraintesi del mondo ebraico, spicca il discorso dell’idolatria a cui è legata la domanda che fa da titolo a quest’articolo: l’ebraismo non ammette immagini?
Per rispondere, cari lettori, vi porto con la mente in una delle sinagoghe a me più care, nodo centrale del mio secondo romanzo, «Corri più che puoi», dove di fatto affronto il discorso dell’arte nel mondo ebraico: la sinagoga dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme decorata da Chagall.
Nei miei vent’anni di vita tra Italia e Israele, numerose volte sono andata a contemplare le meravigliose vetrate di questa sinagoga tuttora funzionante; ammetto di avere un debole per Chagall e di essere rimasta ogni volta incantata dai gialli, rossi, verdi e blu delle immagini. Un’immersione nella bellezza che appaga occhi e spirito e che, al contempo, mi ha a lungo interrogata sul discorso «arte» nel mondo ebraico. Mi sono chiesta come fosse possibile permettere tale bellezza dato che il mondo ebraico vieta l’immagine o almeno così si è soliti dire.
Come per ogni domanda, è un’adeguata conoscenza a venirci incontro per fornirci risposte.
Partiamo dal secondo comandamento – in base alla numerazione ebraica – per affrontare l’argomento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».
Da qui si apre il complesso capitolo dell’idolatria a cui è connesso il discorso dell’immagine.
Come per tutti gli argomenti complessi, occorrono tempo e lunghe spiegazioni per arrivare a una piena comprensione; non potendo essere esaustiva in un articolo, mi limiterò a fornirvi alcuni spunti.
In ebraico il termine con cui si definisce l’idolatria è Avodah Zarà; letteralmente si traduce con «culto straniero» ed è il titolo di un trattato del Talmud che affronta la relativa questione. Il mondo ebraico, come ormai sappiamo, si regge sull’ortoprassi; non si tratta quindi di un problema teorico, ma pratico, ovvero l’esigenza di normare la vita del popolo di Israele che si trova a contatto con i goym, i non ebrei. Serve per prevenire atti di idolatria e assimilazione che non è una fissazione degli ebrei, ma un’esigenza di preservare l’identità.
Di fatto l’idolatria è un rischio interno alla condizione umana in quanto tale perché è un modo non autentico di rapportarsi, una relazione alterata; l’idolo non è qualcosa di specifico, ma un modo totalizzante e riduttivo di relazionarsi a qualcosa e qualcuno. Persino l’eccesso di zelo può diventare idolatria come si evince dall’episodio biblico in cui Nadav e Avihu, figli di Aronne, vengono colpiti da Dio perché colpevoli di «esh zarà», fuoco estraneo, ovvero di un eccessivo fervore nell’adorarlo, di fatto un modo non corretto di rapportarsi a Lui.
Abramo fu il primo a rifiutare in modo categorico l’idolatria che, si noti bene, non è sinomimo di ignoranza e arretratezza dal momento che si può presentare in infiniti modi alcuni dei quali molto sottili.
Va da sé che l’arte diventi quindi argomento di discussione come accade sempre nel mondo ebraico. Si parla di limiti e concessioni e ci sono svariate opinioni in materia, alcune più rigide altre più elastiche; per esempio Nachmanide, grande maestro spagnolo medievale, parla di divieto di farsi immagini solo se realizzate con lo scopo di adorarle. Al contrario Ovadia Sforno, maestro italiano rinascimentale, vieta qualunque immagine anche se non a fini idolatrici.
La materia è quindi complessa e ricca di opinioni tra loro in contrasto. Esistono esempi artistici anche nella Torah come gli artigiani del Santuario. La sinagoga dell’Hadassah Center non è l’unico esempio di luogo di culto decorato; basti pensare a quella di Dura Europos in Siria interamente affrescata o all’antica sinagoga di Bet Alpha alle pendici del monte Ghilboa nel nord di Israele.
Rimangono fermi alcuni divieti come quello di rappresentare angeli con figure umane e di rappresentare Dio, ma per il resto molto dipende dall’uso che dell’immagine viene fatto.
Resta evidente che il confine tra idolatria e rappresentazione artistica è molto sottile e ogni volta si deve fare riferimento ai rabbanim, i maestri, per dirimere le questioni.
Una visita alla sinagoga decorata da Chagall può essere una buona idea per conoscere meglio una parte di mondo ebraico che spesso viene fraintesa perché riletta alla luce di culture differenti.
Da amante dell’arte e da conoscitrice del mondo giudaico posso solo dire che più si approfondisce la bellezza, più se ne esce arricchiti.
E da letterata non posso che concordare con Dostoevskij quando dice che la bellezza salverà il mondo perché accende il cuore e dona speranza nelle tempeste della vita.
foto @ Dr. avishai teicher Pikiwiki Israel
L’impurità nel mondo ebraico è un argomento complesso, poco conosciuto dai non ebrei e pieno di fraintendimenti. Spiegarlo in un articolo è impossibile, motivo per cui mi limiterò a dare solo degli spunti.
Cominciamo subito sgombrando il campo da un equivoco: il termine ebraico tum’ah non indica un concetto etico legato al peccato e alla sporcizia interiore, ma una condizione ontologica. Ha a che fare con Dio e la sua sacertà – ovvero il rapporto col sacro – e si può diventare impuri anche se si ha un comportamento retto dal punto di vista morale.
Stare al cospetto di Dio è qualcosa di immenso, grande a tal punto da essere pericoloso; proprio per questo occorre essere puri perché l’impurità comporta un depotenziamento che rende l’essere umano vulnerabile di fronte al Creatore.
Si diventa impuri quando si entra in contatto con un cadavere, con un cibo non kasher, col sangue. Per tornare ad avere accesso al rituale – all’ambito del sacro – occorre purificarsi seguendo alcune procedure. Tra esse c’è l’immersione nel mikveh; letteralmente la parola vuol dire «raccolta»; e indica una vasca di raccolta delle acque che devono essere di origine naturale. Il mikveh è presente in ogni luogo dove c’è una comunità ebraica e ha determinate caratteristiche strutturali che trovano indicazione nei testi sacri. L’immersione in acqua determina una rigenerazione spirituale (come non pensare al battesimo che nasce all’interno del mondo ebraico, dato che le prime comunità cristiane altro non erano che una corrente dell’ebraismo).
A normare il discorso puro/impuro è il Levitico in numerosi passaggi; fino alla presenza del Tempio, numerose erano le regole da seguire per essere idonei all’immissione al cospetto di Dio (basti pensare alla figura del Cohen, il sacerdote, e ai riti di purificazione a cui doveva sottoporsi). Dopo la caduta del Tempio, molte sono venute meno, anche se attualmente alcune rimangono valide; fra esse l’obbligo per la niddah, la donna mestruata, di recarsi al mikveh a fine ciclo prima di tornare in contatto col proprio marito.
Il mondo giudaico è una galassia e proprio per questo declina i concetti in maniera diversa senza che questo crei contrasto; ecco spiegato così il motivo per cui una donna in età fertile non dà la mano all’atto della presentazione o perché nel mondo dei charedim marito e moglie dormano in letti singoli separati e non in un letto matrimoniale per non creare contaminazione durante il ciclo mestruale.
I numerosi equivoci attorno al concetto di impurità nascono dal cambiamento di significato che la parola assume nel corso del tempo e dalla storia che l’ha accompagnata.
In una società liquida come la nostra – che butta nell’etere parole a raffiche in preda a un’incontinenza verbale – tutto rischia di essere frainteso, veicolando giudizi pericolosi e privi di fondamento laddove mancano adeguate informazioni.
È importante non lasciarsi trascinare dalla superficialità e dalla fretta di parlare; si deve ricordare che il tempo modifica linguisticamente il valore delle parole. Occorre prestare attenzione al significato di un termine collocandolo nel giusto contesto culturale e, per evitare pregiudizi infelici, è sempre meglio andare a fondo dei concetti che contraddistinguono un mondo a noi sconosciuto.
Bacino del mikveh medievale del 1126 a Spira © Chris 73 / Wikimedia Commons
Abraham J. Heschel, importante figura dell’ebraismo contemporaneo, disse: «Le parole non sono fatte di carta, ma di vita».
Nel nostro mondo tecnopratico − che ritiene il gesto l’unica forma di azione − può suonare strana una frase così; si sente infatti spesso dire «Fatti, non parole», come se la parola fosse un banale insieme di sillabe buttate nell’aria con l’unico obiettivo di mettere in contatto le persone.
La parola è molto di più invece: è appunto vita come dice Heschel.
Per comprendere meglio questo concetto, può venirci in aiuto il mondo ebraico; a partire dal suo alfabeto, ci insegna infatti che con la parola si crea, che la Parola ha una valenza pratica al punto che il termine davar ha un doppio significato: parola e cosa, a suggellare l’idea che, a parità del gesto, è un’altra forma di azione concreta. Il Dio biblico crea con la parola e dà all’essere umano il compito di nominare il creato che lo circonda e, come già detto altre volte, dare il nome in ebraico significa conferire identità a ciò che si nomina.
Le parole possono essere farmaco o veleno, dare vita o toglierla.
Oggigiorno viviamo in un mondo affetto da bulimia verbale: tutti fanno chiasso e vince chi grida più forte, atteggiamenti che sono l’esatto opposto dell’aver cura della parola. Ritornare alla Torah può essere quindi un esercizio per interrompere questo processo di bulimia verbale e fare spazio alla vita nei suoi aspetti più belli.
La Torah è scarna, non indugia nei particolari; questo ha permesso ai rabbanim, i maestri di Israele, di leggere tra le righe del testo, tra le parole, meglio ancora tra le sue lettere che hanno tutte un valore numerico. La combinazione di questi valori numerici − così come altri strumenti ermeneutici − permette di creare agganci tra brani generando una lettura a specchi tra la Torah e le altre parti del Tanak, Nabim (profeti) e Ketubim (scritti). Questo metodo di lettura è stato adottato dal mondo cristiano; se infatti prendiamo una pagina del Nuovo Testamento, ci rendiamo conto che accanto a ogni passo ci sono riferimenti alla Bibbia ebraica che ne illuminano il senso rievocando quel gioco di specchi sopra menzionato che rende il testo sacro qualcosa di vivo.
I maestri da sempre interpretano la Torah, una forma di cura verso la Parola che ancor oggi perdura nel mondo ebraico. Sempre Heschel disse: «Dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme, Israele è vissuto in un paese di pergamena».
Oggigiorno il popolo ebraico ha una terra dove vivere, sebbene martoriata e affaticata, e con essa ha un legame antico; questo però non ha messo fine a quel paese di pergamena tanto caro ai maestri.
La cura per la Parola è un invito da estendere a tutti, credenti e non credenti. Per gli ebrei la Torah è fondamento della vita; per i cristiani, in quanto eredi della Bibbia ebraica, la Torah è parte imprescindibile del loro mondo spirituale e hanno quindi il compito di conoscerla con attenzione e rispetto. Per i non credenti vale invece il discorso che il testo biblico, piaccia o non piaccia, fa parte del patrimonio culturale della storia mondiale, non solo europea. Per chi appartiene alla categoria degli artisti diventa un discorso ancora più pregnante: la Bibbia infatti è soggetto e spunto per un’infinità di creazioni pittoriche, scultoree e musicali. Se poi riflettiamo sulla scrittura, ci accorgiamo che lo scrittore ricalca le orme del Dio biblico perché dà vita a universi interiori ed esteriori con le parole.
Tutti dobbiamo avere cura e rispetto della parola e abbiamo il compito di usarla con responsabilità per arginare le strumentalizzazioni del verbum che generano confusione conducendo al non-senso della vita.
"Ebreo in preghiera" © fotografia di Maria Elisabetta Ranghetti
«Hashana haba’a b’Yrushalaim», ovvero l’anno prossimo a Gerusalemme.
È l’augurio che in tutte le case ebraiche si fa durante Pesach, la Pasqua.
A breve comincerà questa importante festa ebraica il cui inizio si celebra il 14 del mese di Nissan (che quest’anno coinciderà col 22 di aprile).
Si sono scritte e dette molte cose su questa festività, su questo passaggio – pesach vuol dire appunto passaggio – che ha segnato la storia ebraica.
Oggi vorrei focalizzare l’attenzione su due aspetti fondamentali: la memoria data dalla trasmissione del racconto e le radici che portano a tornare a casa.
Durante Pesach si recita l’Haggadah, ovvero il racconto che descrive le vicende di Israele nell’uscire dall’Egitto; i bambini hanno in questo caso l’importante compito di sollecitare questa narrazione con le loro domande. Israele è il popolo della Parola: con la Parola Dio crea l’universo, con la parola Israele rievoca le sue vicende e le rivive. La parola è sia creatrice di vita sia portatrice di una continuità storico-temporale che attraversa i millenni per arrivare fino a noi. Non è solo fascino ancestrale, ma è attualità; con l’Haggadah non ci si limita a rievocare, assieme ad altri gesti, un momento, ma lo si riattualizza. E mai come in questi tempi così travagliati diventa fondamentale per Israele aggrapparsi a questa narrazione. Nel mondo ebraico ci sono molte feste e spesso si ironizza dicendo: «Hanno tentato di ucciderci, non ci sono riusciti, brindiamo e mangiamo». Brindare alla vita è nel DNA di ogni ebreo: quando infatti si fa un brindisi, non si dice «alla salute», ma «lechaim», alla vita, presente a prescindere anche dalle condizioni di salute.
Augurandosi di tornare a Gerusalemme, ogni anno, da tempo immemore, Israele si augura un ritorno alle proprie radici: un ritorno che non è solo fisico, ma prima ancora interiore. È un tornare a sé stessi, un cercare quel bandolo della matassa che consente di ritrovare la propria anima.
La terra di Israele non è un capriccio per gli ebrei: è la loro anima, il cuore dove c’è il battito del popolo. Lo era prima del 1948 e lo è tuttora, anche in questo momento storico così complicato che tanti vogliono spiegare con banalizzazioni e visioni manichee, e lo sarà anche in futuro a prescindere dall’evoluzione degli eventi storici.
Terra-libro-popolo è la triade su cui si basa quel mondo. Si può non capirlo, si può non accettarlo, ma rimane la realtà di un popolo che unico accettò la Torah proposta da Dio e che, tra fatiche e gioie, ancor oggi la vive.
Le radici sono legate alla Parola, non solo quella divina, anche quella umana: nessuno di noi può trovare equilibrio interiore senza conoscere le proprie radici che ci vengono trasmesse con dei racconti.
Pesach da sempre codifica questo concetto aggiungendogli quel sapore spirituale che nel nostro mondo talvolta si smarrisce, ma che la domanda di un bimbo è pronto a ripristinare.
E dopo il racconto arriva l’augurio di essere l’anno prossimo a Gerusalemme.
Questo è per me l’augurio più bello perché vorrebbe dire poter tornare a casa che, come ho scritto in premessa al mio ultimo libro – Habayta, Verso casa –, è fare pace nel proprio cuore.
Forse tarderanno gli accordi di pace, ma nessuno di noi, fino ad allora e anche dopo, può essere esonerato dal ricercare la pace nel proprio cuore.
Il mio invito alla vigilia di questo Pesach è di portare il cuore su quelle strade per chi ci è già stato ma anche per chi non ci ha mai camminato di persona.
È un invito a sentire l’amore di Israele per un fazzoletto di terra che va oltre il discorso economico e di potere.
Pesach, passaggio: sopra gli stipiti delle case donando libertà che, in definitiva, significa aprire il cuore alla vita.
Pesach sameach!
Il Museo d'Israele, Gerusalemme, Foto © Museo d'Israele, Gerusalemme, di Elie Posner
Abramo è il padre delle tre fedi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam.
Lo definirei l’umile esempio fallibile – ma non fallito – di chi ha incarnato l’ascolto. Ascolta un Dio che ancora non è il Dio di qualcuno come per Mosè, ma una voce che lo porta a muoversi contro la logica di non abbandonare una comfort zone per andare verso una terra sconosciuta.
Seguendo quella voce, Abramo ascolta il lech-lechà – che lo guiderà anche nella legatura di Isacco – che tradotto vuol dire «vai a te stesso».
Che cosa vuol dire andare a sé stessi? Come Abramo va a sé stesso? Ascoltando la Voce, Dio, e trovando così la sua strada per giungere nel luogo, HaMakom, come si chiama talvolta Dio in ebraico.
Non chiese spiegazioni, si fidò e basta; oggi un personaggio così verrebbe definito uno sprovveduto, un ingenuo che non usa la testa. Si è perso l’aspetto della forza di questo ascolto che è il tratto distintivo del popolo ebraico (basti pensare allo Shemà Israel, Dt 6, che ogni giorno l’ebreo recita); si è persa la bellezza di questa emunà – fede in ebraico – una fiducia a tratti incondizionata e tipica di un uomo capace di seguire Dio contro ogni logica razionale come invece si vorrebbe nella nostra società.
Raramente ci si interroga sulla paura che ha provato: forse anche lui avrebbe preferito seguire la ragione che rassicura, incasella, tiene sotto controllo. Forse non capisce chi sia quel sé stesso fino in fondo e a definirlo sono infatti i suoi successori.
Noi cerchiamo di ascoltare la nostra voce interiore per capire chi siamo per poi procedere sulla strada che individuiamo: prima ci capiamo e poi ci mettiamo in movimento.
Abramo invece si mette in ascolto, si mette in cammino e forse arriva a comprendere sé stesso, cosa che si rivelerà secondaria.
L’obbedire a Dio, per l’ebreo, è un atto di fiducia che scavalca ogni logica; gli stessi precetti, mizvot, vengono eseguiti sulla fiducia in Dio perché la provenienza del comando vince su tutto. Non si tratta di mero legalismo come spesso è stato erroneamente detto, quanto di un ribaltamento del rapporto con Dio che diventa Colui con cui camminare assieme.
E nella Sua chesed, misericordia, il Dio degli ebrei lascia che Abramo faccia errori (come spacciare Sara per sua sorella in Egitto o avere un figlio da una schiava) senza che questi errori lo determinino in maniera assoluta: la promessa di una discendenza numerosa viene mantenuta nonostante gli inciampi della vita di Abramo. Ne esce l’immagine di una relazione unica, fatta di amore e fiducia, talvolta di discussioni e contrattazioni come quella per salvare i giusti di Sodoma.
In questa relazione la Voce chiama e Abramo risponde: innenì, eccomi!
È l’apripista di ogni credente, colui che sulla fiducia cammina con Dio e Gli parla, rivelando così all’umanità che la fede è una relazione. Nella sua caducità umana, all’ebreo – e anche ai goym – insegna l’ascolto in tutte le sue forme e preannuncia che i precetti sono parte integrante di questo ascolto, non sudditanza paurosa a Dio che, nella Bibbia, rivela sempre il Suo volto di padre al Suo popolo bisognoso d’amore.
"Tende ad Harran" © fotografia di Maria Elisabetta Ranghetti
Il mondo ebraico, la Torah tutta, si regge sulle lettere dell’alfabeto che hanno anche valore numerico. Il Dio degli ebrei crea tramite la Parola, è una voce che si fa presenza nell’ascolto reciproco, elemento fondamentale del popolo stesso (basti ricordare lo Shemà Israel, Dt 6).
La Parola è da millenni soggetto su cui moltissimi ebrei spendono anni di studio; durante la diaspora il popolo ebraico è stato un popolo di pergamena che ha mantenuto la propria identità nell’ascolto e nell’interpretazione della Torah studiandola e rivoltandola in ogni suo lembo. Sul monte Sinai furono consegnate, secondo la tradizione rabbinica, due Toroth: quella scritta e quella orale, quest’ultima continua interpretazione della prima. L’ebraismo è ortoprassi e questo spiega la necessità di continuare a discutere delle mizvot, i precetti da seguire, che presentano problemi da affrontare nella quotidianità in base anche al momento storico (ai tempi di Mosè, ad esempio, non c’erano la corrente elettrica ed internet che pongono nuovi interrogativi di vita quotidiana con cui fare i conti).
L’ermeneutica rabbinica ha come metodo il midrash, parola legata alla radice darash che significa investigare; esistono regole precise per fare midrash, le middot, che permettono di interpretare gli infiniti significati della Parola di Dio. Dio, per gli ebrei, è questa Parola ed essendo infinito non c’è limite a ciò che la Sua Parola dice; per usare un’immagine calzante, è come percuotere una roccia da cui escono infinite scintille.
Oggi propongo uno spunto di riflessione sull’argomento «verità» partendo dalla lingua ebraica.
Fede in ebraico si traduce con la parola emunà etimologicamente legata a emet, verità; se pensiamo al termine «amen», ci accorgiamo del nesso etimologico e così ne capiamo il senso più profondo, ovvero «in fede», «con verità» professo una cosa. La parola emet, in ebraico, si scrive con alef (che qui si legge ‘e’), la prima lettera dell’alfabeto, la stessa con cui comincia uno dei nomi di Dio, Elohim. Se si toglie quella alef, la parola emet diventa met che vuol dire ‘morto’. Senza Dio quindi – che è misericordia e non solo giudizio – la verità diventa una forma di morte. In termini laici la si può tradurre così: senza empatia si corre il pericolo di trasformare una verità in una morte interiore per l’altro e, in casi più gravi, anche indurre qualcuno a porre fine alla propria vita. La capacità di preservare la propria umanità è la cosa più importante: essere un imprinting di Dio, conservare quella alef quando parliamo di verità, è fondamentale altrimenti uccidiamo il prossimo.
Oggigiorno siamo affossati da bulimia informativa disseminata di fake news che fomentano odio e rompono relazioni.
Partendo dalla Torah – che parla ancor oggi a chi si presta ad ascoltarla – ci rendiamo conto dell’enorme responsabilità che ognuno di noi ha nell’uso della parola; occorrono coscienza e coraggio nel professare la verità. Il peso delle parole è fondamentale perché sappiamo quando e dove partono, ma non come e dove arrivano.
In un mondo che vuole farsi garante della verità, mi viene spontaneo chiedermi: quale verità, per la vita o per la morte?
Nella Sua infinita sapienza Dio ci lascia liberi di scegliere; dobbiamo però ricordare che ogni libertà è disciplinata dalla responsabilità. Siamo noi ogni giorno a scegliere se usare la parola per la vita o per la morte, se stringere a noi quella alef o gettarla via: ricordiamocelo ogni volta che apriamo bocca.
"Ebreo in preghiera al Kotel" © fotografia di Maria Elisabetta Ranghetti
Il cardinal Carlo Maria Martini definì l’ebraismo la radice santa del cristianesimo perché su di esso si innesta la rivelazione neotestamentaria; non è infatti un caso che la Conferenza Episcopale Italiana abbia stabilito che il 17 gennaio – giornata del dialogo ebraico-cristiano – apra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Non si tratta però di conoscere il mondo giudaico solo per contestualizzare Gesù, un ebreo profondamente radicato nel suo popolo e nella sua terra, ma di comprendere che i riferimenti al Tanak (Bibbia ebraica) sono parte fondamentale del Vangelo: toglierli rappresenta una mutilazione del testo sacro cristiano, un impoverimento della comprensione della storia d’amore tra il Dio biblico e l’umanità.
Nel corso dei millenni si è spesso data un’interpretazione del Vangelo in opposizione a passi biblici della Bibbia ebraica rischiando di far dire alla Parola ciò che non disse.
Frutto di questa operazione sono le numerose incomprensioni nate attorno al mondo giudaico; un esempio concreto è la confusione che si è generata sulla figura dei farisei, spesso dipinti come l’incarnazione dell’ipocrisia e del rigore estremista della Legge. Da qui l’errata convinzione che la fede ebraica sia legalista, caratterizzata da un Dio incapace di provare tenerezza, duro e dedito solo alla giustizia, senza misericordia.
Come già spiegato nel mio precedente articolo sul perdono, questi sono concetti sbagliati.
Le discussioni tra farisei e altre correnti del giudaismo dell’epoca di Gesù erano la norma e non implicavano una contrapposizione intrisa di ostilità; erano solo – e lo sono ancora oggi nelle yeshivot, le scuole talmudiche – la modalità con cui si legge e interpreta la Torah. Una «guerra santa» della Parola, un confronto di scuole ermeneutiche differenti per un fine superiore: la santificazione del Nome di Dio.
Conoscere il sistema midrashico e il Talmud non fa parte del bagaglio culturale del cristiano medio, ma dovrebbe almeno essere parte integrante della formazione di chi fa omelie e tiene incontri religiosi.
I cristiani sono spiritualmente semiti e non possono prescindere, nel vivere la loro fede, da Abramo e Mosè; devono anche tenere a mente che l’interpretazione di passi della Torah è differente per motivi ovvi: gli ebrei sono in attesa del Messia e non riconoscono Gesù come tale.
I vangeli dal canto loro sono un importante documento per conoscere il mondo giudaico di quell’epoca.
Perché ci siano reciprocità e dialogo, occorrono rispetto delle differenze e consapevolezza del legame tra queste due fedi che per molti secoli sono state avversarie, con conseguenze catastrofiche per Israele.
Riconoscere nell’ebraismo la radice santa del cristianesimo significa quindi spogliarsi di tutti quei pregiudizi antigiudaici che ancora oggi riemergono in contesti storici come quello che stiamo vivendo.
Antisemitismo e antigiudaismo – il primo di matrice etnica e il secondo di stampo più teologico – hanno una origine comune: la non conoscenza di un mondo vittima, da millenni, di pesanti pregiudizi.
Un cristiano non può essere antisemita perché andrebbe contro tutto ciò che costituisce il suo patrimonio di fede, in primis la persona di Gesù.
In questo inizio d’anno, in un mese dove si medita sull’unità dei cristiani, occorre porre un’attenzione speciale al dialogo col mondo ebraico.
La Bibbia cristiana comincia con la Torah e conoscerla è fondamentale per comprendere il Vangelo. Conoscerla apre ancor più all’infinita bellezza e profondità che la Parola di Dio dona a partire da Bereshit, la Genesi, il principio di quell’incredibile storia d’amore tra il Dio biblico e l’umanità.
© Lawrie Cate, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
In un momento storico così doloroso, diventa un imperativo morale affrontare la tematica del perdono. Occorre fare luce sul significato di questo concetto nel mondo ebraico, data la confusione che regna in merito.
Non è infatti raro ascoltare ancor oggi riflessioni che richiamano la «legge del taglione» per dire che Israele non ha misericordia. Il primo errore è da attribuirsi alla stessa interpretazione di questa legge: «occhio per occhio, dente per dente» non vuol dire vendetta, ma richiama la necessità di risarcire, in termini economici, un danno arrecato secondo parametri di equa ripartizione. Va poi collocata nel giusto contesto storico e non estrapolata – come in malafede spesso si fa – per sottolineare quanto i cristiani siano superiori agli ebrei.
Fatta questa debita premessa, occorre capire ora cosa sia il perdono nella fede ebraica.
Per chi non l’avesse ancora fatto, invito a leggere «Il girasole. I limiti del perdono» di Simon Wiesenthal, un testo che merita di essere riletto più volte perché entra nel cuore del tema che oggi affrontiamo.
Nella tradizione ebraica il concetto di perdono è legato alla teshuvah, ovvero il ritorno a Dio, la cui chesed, misericordia, è infinitamente più grande della giustizia; questo lo si può intuire anche dai colori del talled, lo scialle della preghiera, il cui bianco predomina sul blu. Il bianco ricorda infatti la misericordia e il blu la giustizia. L’ebraismo non è quindi una religione legalista come a lungo è stato detto, ma una fede che, al pari del cristianesimo, ha in sé un legame indissociabile tra amore e giustizia. L’elemento affettivo, di un Dio padre misericordioso che abbraccia con amore il figlio, è un aspetto predominante nel mondo ebraico e non è una novità del cristianesimo. Tutto ciò è abbastanza logico se poi si pensa che Gesù era figlio del suo popolo, di quella cultura che non era di certo priva del concetto di misericordia.
Il perdono, nella fede di Israele, si regge su tre elementi fondamentali: il pentimento di chi ha procurato l’offesa a cui deve far seguito la richiesta di perdono e la sua riparazione, la consapevolezza che non tutte le offese possono essere perdonate e l’impossibilità di perdonare a nome di qualcun altro. Il mondo ebraico mette in evidenza il fatto che Dio può perdonare solo i peccati commessi contro di Lui, non quelli che un uomo commette contro il suo prossimo; per ottenere perdono dal prossimo, occorre andare dalla persona offesa e chiedere scusa. I versetti 23-24 di Matteo al capitolo 5 rievocano in maniera chiara questo concetto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono».
Tutto è «perdonanile»? No, non tutto è perdonabile. Perché vi sia perdono, la persona offesa deve essere viva per concederlo; se però è stato commesso un omicidio, la riconciliazione è impossibile per ovvi motivi pratici. L’omicida dovrà quindi convivere con l’idea che non potrà ottenere perdono in questa vita e confidare nella misericordia del mondo a venire. Posso perdonare io a nome di qualcun altro che è stato offeso o non c’è più? No, non posso, il riconciliarsi è una dinamica che prevede la relazione diretta tra chi offende e chi è offeso, motivo per cui Wiesenthal ha rifiutato il perdono al soldato SS morente.
La teshuvah va vissuta ogni giorno della vita, ma la tradizione rabbinica ha istituito un momento solenne perché la richiesta di perdono venga fatta collettivamente, lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Viene celebrato dieci giorni dopo il capodanno ebraico con una significativa liturgia sinagogale che prevede un digiuno di 25 ore da cui vengono esentati donne incinte, ammalati, bambini, le categorie fragili da tutelare perché la vita viene prima di ogni precetto. In questo giorno si è invitati in maniera solenne a riconciliarsi con le persone, vivendo una serie di gesti significativi, tra cui la memoria del capro espiatorio e il suono dello shofar.
La riconciliazione deve però avere come seguito la cessazione del male e la riparazione col bene: se può quindi essere umano ricadere nell’errore, questo non deve diventare un alibi per continuare a scegliere il male. Tutto il mondo ebraico si regge sul concetto di libero arbitrio e di responsabilità di ciò che si commette: la misericordia di Dio non è un invito a non darsi un contegno, semmai un esempio da seguire.
Vorrei infine aggiungere una riflessione personale. In Levitico 19 è espressa l’idea di amare il prossimo come se stessi; questo versetto da sempre mi interroga sul concetto di prossimo. Chi è il mio prossimo? Solo l’amico? Il prossimo è colui che ci sta vicino e non necessariamente è un amico, può essere anche un nemico. Riflettendo poi sul periodo storico in cui il versetto è stato scritto, non ci si può esimere dal considerare che in quell’epoca i confini del mondo erano molto più ristretti, il prossimo era quindi anche un vicino di terra indesiderato o un nemico che arrivava da fuori. In questo versetto c’è quindi, a mio avviso, già scritto il concetto di perdono del nemico.
Siamo a conclusione di un anno che non esito a definire doloroso, dove ognuno di noi farà il bilancio delle proprie azioni e della propria vita. Se finora non tutti conoscevano il significato del perdono nel mondo ebraico, spero con questo piccolo contributo di aver fatto un po’ di luce in merito.
Auspico che questa luce possa illuminare anche le nostre riflessioni di fine anno con l’umiltà di non giudicare un mondo senza prima conoscerlo da dentro.
L’augurio che faccio a tutti voi, cari lettori, è che possiate rileggere alcuni versetti biblici con ricchezza maggiore per alimentare il desiderio di andare incontro all’altro conoscendolo per chi è, perché solo la conoscenza spalanca le porte a un dialogo volto al bene.
Questi sono giorni di dolore e ansia per il mondo intero: l’ennesima guerra scoppiata tra Israele e Palestina, questa volta, non è la solita guerra e sta investendo il globo in maniera diretta.
Ascolto discorsi da cui si evince che la Shoah sia qualcosa di lontano, di nicchia, un vago ricordo di cui fare memoria il 27 gennaio, non una realtà che sta irrompendo nelle nostre vite.
Per capire ciò che sta succedendo, bisogna ripartire da quel tremendo 7 ottobre 2023 da molti definito l’11 settembre israeliano. Quel giorno non c’è stato un attentato, né è cominciata una nuova intifada. Quel giorno c’è stato un pogrom, un massacro di civili innocenti che ha fatto fermare il cuore di molte persone: com’è possibile che nel 2023, nello stato ebraico, si sia ripetuto un fenomeno che ormai davano per archiviato, per impensabile? Eppure è accaduto. Uomini, donne e bambini ebrei sono stati uccisi dentro le loro case, rapiti dai loro cari.
Le cupe risonanze che quei fatti stanno avendo nel cuore dell’Europa – quel vecchio continente che sembrava aver capito la lezione – ci dicono che stiamo di nuovo rischiando la tragedia. Sono state bruciate pietre d’inciampo, disegnate svastiche nei cimiteri, lanciate molotov contro le sinagoghe, segnate case di ebrei con stelle di Davide sulle porte. L’ebreo è di nuovo dichiarato pubblicamente un indesiderato.
Mi vengono in mente le parole di Amoz Oz nel suo Contro il fanatismo: «A quel tempo l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei, andatevene in Palestina. Quando, molti decenni dopo, mio padre tornò in Europa per un viaggio, la trovò coperta di altre scritte: ebrei, fuori dalla Palestina».
Non esito a definire l’antisemitismo un guasto del cuore difficile da estirpare, che torna e ritorna con ogni pretesto, che ci rende lontani da quel desiderio da molti invocato a parole, con bandiere colorate, con marce: il desiderio della pace.
Non ci sarà mai pace finché aleggia sul mondo lo spettro della Shoah pronto a ripresentarsi a ogni occasione. La sua durata millenaria evidenzia quanto l’uomo sia incapace di smettere di odiare il diverso; nonostante tutti i discorsi politically correct e le leggi democratiche volte a tutelare le minoranze, il genere umano ha nuovamente fallito.
L’ebreo – il diverso per eccellenza che da millenni viene cacciato da ogni luogo perché indesiderato – è lì a dirci che nel mondo non esiste un luogo sicuro per lui e al contempo ci costringe a prendere atto che non esiste un posto dove siamo tutti uguali.
La paura del diverso, così radicata in ognuno di noi, ci mette di fronte al limite della mente per cui non capiamo ciò che non conosciamo e di conseguenza lo temiamo.
E la paura, si sa, gioca brutti scherzi.
In momenti come questo, dobbiamo aggrapparci alla cultura.
Se non si conosce la Storia, se non si conosce un popolo, la sua lingua, non si può interagire in maniera sana per costruire un dialogo, lo strumento che per eccellenza blocca i conflitti.
In tal senso è fondamentale anche il dialogo religioso; nello stesso mondo cristiano, per millenni, l’odio verso l’ebreo è stato accettato e caldeggiato in nome di quell’antigiudaismo – che non è sinonimo di antisemitismo, semmai una sua costola – che ha pervaso le chiese. Il Concilio Vaticano II è stato però un punto di svolta e, se per cambiare mentalità occorre tempo, è pur vero che l’ignoranza regna ancora sovrana in molti contesti. Israele è – come la definì il cardinal Martini – la «radice santa» su cui si innesta il cristianesimo. Gesù era un ebreo e una lettura attenta del Nuovo Testamento costringe ogni cristiano a prendere atto di questo dato storico. L’odio verso il mondo giudaico ha allontanato a lungo in maniera drammatica questa radice senza la quale il cristianesimo è monco. Ancora leggo articoli dove si dice che gli ebrei non conoscono il concetto di perdono, cosa non solo falsa, ma inquietante perché mette in mostra l’arroganza di chi giudica un mondo senza conoscerlo.
La conoscenza spezza la paura verso il diverso, la mette in corner.
L’ignoranza non è ammissibile in questo momento storico, fomenta la guerra che in Medio Oriente rischia di incendiare tutta la regione fino forse a travalicarne i confini: una società che dà il fianco ai fanatici, con discorsi più o meno espliciti, apre le porte al male.
Molti mi chiedono: «A che serve preoccuparsi, tanto non possiamo farci nulla?».
Credo invece che tenere le antenne all’erta serva a capire la situazione, a imparare a parlare in maniera diversa sui social, nei media, negli uffici, nelle nostre case, nelle aule della politica.
Un essere umano attento – e una sana preoccupazione ci rende attenti – è un essere umano in più che rema contro il fanatismo: non capirlo è fare il gioco dei fanatici, è soffiare con maggior forza su quel vento dell’antisemitismo che oggi rischia di spazzare via tutti, non solo gli ebrei, e che non gioverà agli arabi, ai palestinesi, alla umma mussulmana non allineati con una visione di morte, anzi, li farà soccombere per primi.
Vogliamo veramente essere portatori di pace?
Allora cominciamo a conoscere la Storia, a essere consapevoli che certi fenomeni non sono stati sconfitti, a cambiare il nostro linguaggio di odio in un linguaggio di dialogo. Cominciamo soprattutto a fare un passo fondamentale: a dire che tutto ciò non è qualcosa di nicchia, di lontano da noi, ma qualcosa che ci riguarda e di cui dobbiamo farci carico se vogliamo costruire un mondo sicuro e giusto per tutti.
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