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03 agosto 2024

Per giovani fino a 35 anni

NELLA CAPPADOCIA DEI PADRI

Fede. I primi cristiani e noi. Immersione nella terra e ritorno alle origini per ripercorrere l’itinerario di chi ci ha preceduto nella ricerca di senso della vita.

Una formula pensata per i giovani per promuovere la conoscenza delle grandi tradizioni religiose nei loro luoghi di origine. Imperdibile. 

Con Don Maurizio Girolami (Biblista e Patrologo)
e Luca Bombelli (Guida e accompagnatore)

Per programma e iscrizioni scrivere a: 
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PER SALVARE IL SIRIACO
di Silvana Pepe

Se volontà irriducibile, costanza e certezza della fede sono condizioni indispensabili perché una minoranza religiosa resti in vita, un esempio molto efficace è quello dei cristiani siriaci, determinati a non perdere identità, radici, cultura e la loro lingua, il siriaco, variante dell’aramaico, utilizzato non solo nella liturgia ma anche nella quotidianità. Parlare la lingua di Gesù è il loro orgoglio, ed è sempre stato così, nei secoli.
Matay Can, 28 anni, laureato in matematica, siriaco nato in Germania dove vive, insegna aramaico a due giovanissimi studenti nel Monastero di Mor Yakub D’Karno, un incarico breve, di sole tre settimane, che Matay progettava da qualche anno. Siamo nel sud est della Turchia, nel Tur Abdin (in aramaico), il Monte dei Servitori di Dio, un altopiano tra i 900 e i 1400 metri d’altezza, così chiamato per l’alta concentrazione di monasteri, chiese e asceti, eremiti e monaci che lì abitavano dai primi secoli della cristianità, e che in questo paesaggio di grande suggestione avevano individuato la residenza ideale per sentirsi più vicini a Dio. Il monastero di Mor Yakub, del V secolo, si rivela in tutta la sua vertiginosa bellezza, dopo alcuni chilometri di strada sterrata, tra rocce, terra rossa, spianate a perdite d’occhio , vegetazione bassa e rada . Matay sta per rientrare in Germania («è il mio Paese, di cui sono fiero – dice con convinzione – ma qui, in Turchia, ci sono le mie radici») dopo tre settimane di preghiera, studio e letture sacre, in sintonia e condivisione con questa comunità monastica, ridotta a tre residenti stabili e a un solo monaco, Abuna Aho, che coraggiosamente, in solitudine, con enorme fatica e determinazione e grazie alla prodiga e volenterosa diaspora in Europa, ha ridato la vita al monastero. Ma il caso di Mor Yacop non è unico in questo vasto panorama di chiese e monasteri consumati dal tempo e dall’abbandono e che da qualche anno vedono accendersi una flebile luce di esistenza, la luce della speranza. Monaci che non agiscono da eroi perché l’eroismo evoca spesso gesti muscolari, e qui su tutto domina il silenzio di uomini e di donne nella loro prepotente umiltà, così che i fatti scorrono senza clamori.
Matay è orgoglioso dei suoi due studenti e dei loro progressi. E come altrimenti preservarla la loro antichissima storia? Per Matay l’aramaico è la lingua appresa in famiglia, la lingua dei primi contatti con il mondo, a sei anni serviva già la messa, funzione solenne nella lingua del Signore. Il resto è stato applicarsi, con volontà e passione alla storia dei suoi avi, e ammette senza reticenza «devo perfezionarmi, continuare a esercitarmi». In Turchia, poiché non ci sono scuole confessionali (non consentite per legge), l’impegno è affidato alle rare parrocchie attive e ai pochi monasteri abilitati, lavoro che richiede forze e volontà di genitori e bambini che si dividono tra la scuola pubblica del mattino e i pomeridiani corsi di siriaco in questo Tur Abdin spopolato, tra villaggi svuotati di cristiani in fuga all’estero, a ondate intermittenti, vuoi per ragioni economiche, ma soprattutto in cerca di pace. Per questo motivo i genitori di Matay abbandonarono Alagöz, luogo di devozione per aver dato i natali a San Gabriele di Beth Gustan (versione aramaica di Alagöz), vescovo del Tur Abdin nella prima metà del VII secolo, molto venerato dalla Chiesa Ortodossa d’Oriente. Erano i primi anni ’80 e si partiva per non restare schiacciati tra le rivendicazioni dell’estremismo curdo da una parte e il pugno di ferro dei Turchi dall’altra, e anche se giuravi sulla tua neutralità, non c’era scampo. Più che un’emigrazione fu un esodo, villaggi interi svuotati e molte chiese oltraggiate. La Germania oggi conta 100 mila cittadini di origine siriaca, seguita da Svezia, Svizzera e Belgio. «Siamo grati alla Germania che ci ha accolti e ci ha ridato dignità» dice Matai come parlando a nome di tutta la sua comunità. Il regalo più grande è stata l’introduzione, dieci anni fa, della lingua siriaca come opzione nelle scuole pubbliche. E in un Occidente senza Dio (o quasi), è emozionante la fervida devozione che alberga nelle non poche chiese Siriaco Ortodosse in Germania, che siano a Berlino o nella Renania Westfalia, parrocchie che diventano palcoscenico domenicale di ritualità gioiose che sanno di passato, con famiglie, bambini, processioni, canti religiosi, e i pranzi con cibi mediterranei, e occasioni di raccolta di fondi per i loro fratelli in Siria e in Iraq. E se è vero che per molti giovani di queste famiglie poco conta l’identità originaria, al contrario, da adulti come fosse passaggio d’obbligo, riconoscono come familiari quei segni antichi e il loro valore.
Natale è stato impegnativo per Matay, come ogni anno la sua presenza è richiesta dalla Svezia a Israele, per cantare con la sua voce possente inni in aramaico nei concerti per beneficienza e lui cerca di non mancare nessun appuntamento.

Articolo pubblicato sull’Osservatore Romano del 13-14 gennaio a p. 6.



Silvana Pepe, «Qui la fede ci ha aiutato a resistere», Credere, 1/2020, 16-19.
11-20 AGOSTO 2019
Oltre la paura. La mia estate in Libano e Siria
di Emilia Montagna

Una vacanza? No, di più, un’esperienza che lascia il segno.
Il nostro piccolo gruppo, molto eterogeneo, si è formato a Roma. Ognuno di noi arrivava da città diverse; eppure, poco dopo, sembravamo amici da sempre. Ci guidava Samer, un giovane siriano, sempre molto attento ai nostri bisogni e alla nostra sicurezza. Samer ci ha accompagnati a visitare antiche vestigia: dal tempio di Baalbek in Libano, uno dei siti archeologi più importanti del Vicino Oriente (dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1984), all’imponente teatro romano di Bosra in Siria, il più grande al mondo e tuttora intatto (quindicimila posti e acustica perfetta!). Purtroppo, di altri celebri siti sono rimaste soltanto il ricordo e le immagini sui libri. Così è toccato alla famosa Palmira, capolavoro per sempre perduto. La nostra permanenza in Libano è stata breve. Dopo la visita della bellissima, elegante ma caotica Beirut – città di convivenza pacifica, dalle enormi moschee a fianco a cattedrali e a santuari – siamo proseguiti per la Siria, terra di cui abbiamo ammirato l’arte e gli incantevoli paesaggi, nonché gustato l’ottima cucina (con cene finite a narghilè!) e fatto incontri genuini che ci hanno allargato il cuore. Samer ci ha fatto conoscere la sua splendida famiglia e tanti giovani dell’università di Damasco, studenti del master in turismo. È stata una vera sorpresa per noi, perché abbiamo potuto condividere il loro entusiasmo, la loro voglia di andare avanti e di superare la paura e le tragedie vissute. Il loro sorriso ci ha fatto bene. Sì, nonostante tutto, quei giovani sono ancora capace di sorridere e di guardare oltre! Il ricordo più forte che mi sono portata a casa è il loro orgoglio, il loro coraggio, la loro dignità di essere siriani.
A rendere ancora più interessante e indimenticabile il nostro viaggio sono state le testimonianze di chi ha scelto di stare accanto nella prova. Quella di Giulia, suora francescana, anziana e minuscola ma con una forza incredibile: insieme ad altre due consorelle, nel periodo delle grandi migrazioni di profughi a Damasco, sono riuscite ad ospitare e a dare da mangiare a più di sedicimila persone! Quella di Abuna Rami Elia, gesuita laureato in psicologia a Parigi, che dal piccolo santuario di Sant’Elia, accoglie e supporta ancora oggi, le persone che scappano dalla guerra e da situazioni infernali di violenze di ogni tipo.
Ma se oggi mi si chiedesse di tornare in Siria, il luogo dove andrei per stare più a lungo è senza dubbio Deir Mar Musa, monastero in mezzo al deserto, lontano da tutti ma a tutti vicino. Scavato tra le rocce dello stesso colore della sabbia, il monastero è nato per favorire il dialogo islamo-cristiano, promuovere una cultura della pace e dell’ospitalità, aperto a chiunque sia in ricerca. Abuna Jihad, Suor Huda e Suor Dima dedicano la loro vita alla preghiera, al lavoro manuale e all’accoglienza. Con Dima siamo rimaste a parlare per ore durante la notte, sotto la luna piena che illuminava a giorno la terrazza, dove abbiamo aspettato l’alba insieme alle altre amiche compagne di viaggio. Appena si è fatto giorno tre ragazze arabe che erano con noi, si sono vestite di bianco e, rivolte verso la stessa direzione, hanno incominciato a pregare in silenzio. Un’atmosfera densa di meraviglia e profondità. Sorto il sole, anche noi abbiamo pregato il «Padre nostro».
Più il viaggio proseguiva, più tra noi ci si conosceva meglio: stavamo vivendo un’esperienza davvero particolare. Samer, con grande pazienza, rispondeva alle nostre mille domande su un mondo che viene raccontato in modo parziale dalla TV e dai giornali. Cercavamo di capire le ragioni storiche, politiche e religiose di questa guerra che ha causato più di trecentomila morti e sei milioni di profughi, oltre la distruzione di intere città. Non è stato facile capire e credo che tutti noi siamo riusciti a comprendere poca cosa rispetto a tutto ciò che è successo. Ciononostante, sono sicura che la nostra presenza sia stata molto gradita ai nostri amici siriani. Era tanto ormai che non vedevano visitatori dall’estero e dunque, in un certo senso, per loro abbiamo rappresentato una svolta! Tutti volevano farsi fotografare insieme a noi. Malgrado il nostro impaccio, abbiamo sempre accettato con piacere, perché avevamo intuito ciò che quel piccolo gesto rappresentava per loro. I siriani ci hanno conquistato. Tutto questo e molto, molto altro rimarrà nel cuore di tutti noi. È un’esperienza che consiglio, senza ombra di dubbio.