Caro Lettore,
questa volta ho pensato di proporti il mio punto di vista su un film che mi è molto piaciuto e che mi ha riempito di orgoglio: Il seme del fico sacro (The Seed of the Sacred Fig).
È un film drammatico diretto da Mohammad Rasoulof, regista iraniano noto per il suo coraggio nel denunciare la repressione politica nel suo Paese. La produzione è avvenuta in modo clandestino. Girato segretamente in Iran, il film ha utilizzato anche le immagini reali delle proteste del 2022-2023. Rasoulof è stato costretto a completarlo in esilio, dopo essere fuggito in Germania per evitare una condanna a cinque anni di carcere. L’opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 2024, ed è stato candidato ai Golden Globe e agli Oscar 2025 come Miglior Film Internazionale in lingua straniera. Quindi vale davvero la pena vederlo!
Ecco la trama, con i miei commenti.
La vicenda ruota attorno a una famiglia di Teheran. Il padre, Iman (che in persiano significa «fede»), è un giudice istruttore. Accanto a lui ci sono la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan e Sana, giovani studentesse. A differenza di altri film sul regime, questo non racconta il punto di vista di chi si oppone al potere e lo subisce, ma quello di chi ne fa parte… e lo subisce.
La sorpresa è proprio questa: anche coloro che fanno parte del sistema, che partecipano agli ingranaggi della dittatura in cambio di status, sicurezza economica e protezione, non ne escono indenni. È vivere secondo «la banalità del male»: il bisogno di approvazione e riconoscimento sociale porta al sacrificio della coscienza. Ci si abitua all’orrore quotidiano, a patto di avere in cambio una casa più grande e una lavastoviglie ¾ il sogno della moglie.
Iman viene promosso dopo vent’anni di servizio, proprio mentre esplodono le proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini. La famiglia, inizialmente serena e coesa, viene sconvolta dall’arrivo di un’amica della figlia maggiore, sfigurata durante le manifestazioni. Le figlie, fino a quel momento ignare del vero ruolo del padre, scoprono tutto grazie ai video virali diffusi sui social. Da qui, la tensione cresce in modo claustrofobico: la pistola d’ordinanza del padre scompare e il clima esterno si riflette dentro casa. Inizia un’atmosfera di sospetto, paura e controllo. Iman, sentendosi tradito nella sua intimità familiare, comincia a trattare la moglie e le figlie come dissidenti: le interroga, le manipola, le umilia. Il regime entra in casa e si riproduce nei rapporti più intimi. Nel finale, sarà la figlia più piccola a trovare il coraggio di salvare la famiglia.
In una scena fondamentale, compaiono tanti megafoni: simbolo di una giovane generazione che vuole solo esistere ed essere ascoltata. Una voce che da sempre viene zittita — in casa, come in strada.
Il film si apre con la spiegazione del titolo. Il fico sacro è un albero che cresce avvolgendo e soffocando l’albero ospite: un’immagine che il regista osservò anni fa su un’isola del sud dell’Iran. All’inizio sembra rappresentare il modo in cui il regime penetra nelle vite delle persone, soffocandone la libertà. Ma col progredire del film, il significato si rovescia: è il bisogno di libertà delle giovani che germoglia proprio all’interno del regime e che, pian piano, cresce fino a ribellarsi, stritolando l’oppressione da cui era nato.
Il film usa immagini semplici ma potenti. Il finale ci lascia però delle note amare. Mostra come un buon padre di famiglia possa trasformarsi, senza rendersene conto, in uno strumento del regime. L’orrore che avviene fuori — nella società militarizzata, violenta, inaridita — si replica dentro casa, rendendo la famiglia un riflesso spietato di una società cinica e disumanizzata. In una dittatura, nessuno è davvero libero: carnefice e vittima convivono nello stesso corpo. Tutti sono vittime. Tutti subiscono una società militarista, basata sulla prevaricazione e sull’assenza del bene comune.
Da iraniana e immigrata di seconda generazione, questo genere di film mi riempie davvero di orgoglio. Il fatto che un film girato in persiano possa entrare nel circuito del mercato occidente è già di per sé una conquista. Ma quando un film riesce anche a restituire l’immagine complessa del mio Paese d’origine, beh, davvero ne vado fiera.
I film iraniani aiutano molto a ricreare l’immaginario della mia cultura d’appartenenza, il che aiuta me qui in Italia a farmi comprendere di più da amici e conoscenti. Nel caso di questo film in particolare, ti confesso che ho amato ogni singolo fotogramma, la costruzione dei personaggi, le parole, i luoghi, i colori, i suoni: riaprono scorci nostalgici sul vissuto quotidiano all’interno della mia famiglia, che dentro casa ricreava la sua identità culturale di origine.
Infatti, la porta di casa di una famiglia immigrata, in realtà, è una frontiera: al di qua l’Iran, al di là l’Italia. Come mi sentivo diversa quando da piccola andavo a casa delle mie amichette… Le loro case erano coerenti con ciò che stava fuori. Nel mio caso, assolutamente no. Rileggendo tutto questo, mi accorgo che quelle divisioni esterne non fanno altro che riflettere quelle interiori, e che spesso è davvero complicato riuscire ad unire i pezzi. Ho cercato di tenerli insieme, con fatica, tentando di vivere in armonia con e in questi miei due mondi così diversi. Spesso venivo portata a ripudiarne uno per scegliere l’altro o viceversa. Ma la vita stessa mi ha portato a capire come questo sia impossibile. Volente o nolente, entrambi fanno parte di me. E io non posso essere io senza loro.
Drammatico, Iran, 2024
Regia: Mohammad Rasoulof
Cast: Soheila Golestani, Missagh Zareh, Masha Rostami
Durata: 168 minuti
© Persepolis di Marjane Satrapi - ed. Rizzoli Lizard 2023
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