Persepolis

Anahita Aryan

Nata a Teheran, ha trovato rifugio in Italia con la sua famiglia quando era ancora bambina. È cresciuta a Roma, dove ha ottenuto la cittadinanza italiana e dove lavora come architetta. Non ha però dimenticato i colori e i sapori del suo Paese di origine, di cui continua a sentire il fascino e il richiamo. Terra divenuta estranea, eppure ancora così familiare. La sua vita è diventata un viaggio alla scoperta dell'Iran, per comprenderne la complessa realtà contemporanea nelle pieghe dei suoi miti e stereotipi, ereditati dagli iraniani emigrati all'estero. Attraverso libri, film, racconti di tradizioni e storie di vita, continuerà il suo viaggio insieme a noi.

Il seme del fico sacro

Caro Lettore,

questa volta ho pensato di proporti il mio punto di vista su un film che mi è molto piaciuto e che mi ha riempito di orgoglio: Il seme del fico sacro (The Seed of the Sacred Fig).

È un film drammatico diretto da Mohammad Rasoulof, regista iraniano noto per il suo coraggio nel denunciare la repressione politica nel suo Paese. La produzione è avvenuta in modo clandestino. Girato segretamente in Iran, il film ha utilizzato anche le immagini reali delle proteste del 2022-2023. Rasoulof è stato costretto a completarlo in esilio, dopo essere fuggito in Germania per evitare una condanna a cinque anni di carcere. L’opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 2024, ed è stato candidato ai Golden Globe e agli Oscar 2025 come Miglior Film Internazionale in lingua straniera. Quindi vale davvero la pena vederlo!

Ecco la trama, con i miei commenti.

La vicenda ruota attorno a una famiglia di Teheran. Il padre, Iman (che in persiano significa «fede»), è un giudice istruttore. Accanto a lui ci sono la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan e Sana, giovani studentesse. A differenza di altri film sul regime, questo non racconta il punto di vista di chi si oppone al potere e lo subisce, ma quello di chi ne fa parte… e lo subisce.

La sorpresa è proprio questa: anche coloro che fanno parte del sistema, che partecipano agli ingranaggi della dittatura in cambio di status, sicurezza economica e protezione, non ne escono indenni. È vivere secondo «la banalità del male»: il bisogno di approvazione e riconoscimento sociale porta al sacrificio della coscienza. Ci si abitua all’orrore quotidiano, a patto di avere in cambio una casa più grande e una lavastoviglie ¾ il sogno della moglie.

Iman viene promosso dopo vent’anni di servizio, proprio mentre esplodono le proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini. La famiglia, inizialmente serena e coesa, viene sconvolta dall’arrivo di un’amica della figlia maggiore, sfigurata durante le manifestazioni. Le figlie, fino a quel momento ignare del vero ruolo del padre, scoprono tutto grazie ai video virali diffusi sui social. Da qui, la tensione cresce in modo claustrofobico: la pistola d’ordinanza del padre scompare e il clima esterno si riflette dentro casa. Inizia un’atmosfera di sospetto, paura e controllo. Iman, sentendosi tradito nella sua intimità familiare, comincia a trattare la moglie e le figlie come dissidenti: le interroga, le manipola, le umilia. Il regime entra in casa e si riproduce nei rapporti più intimi. Nel finale, sarà la figlia più piccola a trovare il coraggio di salvare la famiglia.

In una scena fondamentale, compaiono tanti megafoni: simbolo di una giovane generazione che vuole solo esistere ed essere ascoltata. Una voce che da sempre viene zittita — in casa, come in strada.

Il film si apre con la spiegazione del titolo. Il fico sacro è un albero che cresce avvolgendo e soffocando l’albero ospite: un’immagine che il regista osservò anni fa su un’isola del sud dell’Iran. All’inizio sembra rappresentare il modo in cui il regime penetra nelle vite delle persone, soffocandone la libertà. Ma col progredire del film, il significato si rovescia: è il bisogno di libertà delle giovani che germoglia proprio all’interno del regime e che, pian piano, cresce fino a ribellarsi, stritolando l’oppressione da cui era nato.

Il film usa immagini semplici ma potenti. Il finale ci lascia però delle note amare. Mostra come un buon padre di famiglia possa trasformarsi, senza rendersene conto, in uno strumento del regime. L’orrore che avviene fuori — nella società militarizzata, violenta, inaridita — si replica dentro casa, rendendo la famiglia un riflesso spietato di una società cinica e disumanizzata. In una dittatura, nessuno è davvero libero: carnefice e vittima convivono nello stesso corpo. Tutti sono vittime. Tutti subiscono una società militarista, basata sulla prevaricazione e sull’assenza del bene comune.

Da iraniana e immigrata di seconda generazione, questo genere di film mi riempie davvero di orgoglio. Il fatto che un film girato in persiano possa entrare nel circuito del mercato occidente è già di per sé una conquista. Ma quando un film riesce anche a restituire l’immagine complessa del mio Paese d’origine, beh, davvero ne vado fiera.

I film iraniani aiutano molto a ricreare l’immaginario della mia cultura d’appartenenza, il che aiuta me qui in Italia a farmi comprendere di più da amici e conoscenti. Nel caso di questo film in particolare, ti confesso che ho amato ogni singolo fotogramma, la costruzione dei personaggi, le parole, i luoghi, i colori, i suoni: riaprono scorci nostalgici sul vissuto quotidiano all’interno della mia famiglia, che dentro casa ricreava la sua identità culturale di origine.

Infatti, la porta di casa di una famiglia immigrata, in realtà, è una frontiera: al di qua l’Iran, al di là l’Italia. Come mi sentivo diversa quando da piccola andavo a casa delle mie amichette… Le loro case erano coerenti con ciò che stava fuori. Nel mio caso, assolutamente no. Rileggendo tutto questo, mi accorgo che quelle divisioni esterne non fanno altro che riflettere quelle interiori, e che spesso è davvero complicato riuscire ad unire i pezzi. Ho cercato di tenerli insieme, con fatica, tentando di vivere in armonia con e in questi miei due mondi così diversi. Spesso venivo portata a ripudiarne uno per scegliere l’altro o viceversa. Ma la vita stessa mi ha portato a capire come questo sia impossibile. Volente o nolente, entrambi fanno parte di me. E io non posso essere io senza loro.


Drammatico, Iran, 2024 

Regia: Mohammad Rasoulof 

Cast: Soheila Golestani, Missagh Zareh, Masha Rostami 

Durata: 168 minuti

PERSEPOLIS

Persepolis (in farsi: تخت جمشید  Takht-e Jamshid) è l’antica capitale dell’impero persiano e significa appunto la «città dei Persiani». È situata sull’altopiano iranico vicino all’odierna città Shiraz dove emergono i resti archeologici di antichi palazzi degli scià di Persia. 
Persepolis è anche il nome che l’artista iraniana Marjan Satrapi ha dato al suo fumetto storico-biografico in cui racconta di come la storia politica del suo paese di nascita, l’Iran, si intrecci prepotentemente con la sua vita. 

Da piccola mi sono sempre chiesta come mai gli iraniani emigrati in Europa preferiscano chiamarsi Persiani e non Iraniani. La risposta mi è risultata semplice da adulta: il nome «persiano» evoca miti e leggende, smuove un immaginario collettivo esotico e fantastico della storia antica. Mentre «Iran» evoca dittatura, guerra, terrorismo e un islam oscuro, esattamente tutto quello da cui un immigrato iraniano vuole scappare. 

Dalla rivoluzione in poi, la reputazione del paese non è migliorata e l’opinione comune non attribuisce all’odierno Iran elementi positivi. Me ne sono accorta con maggior evidenza quando cercavo il nome per questa rubrica. Nonostante la lingua italiana contempli centinaia di vocaboli di origine persiana − paradiso, chitarra, divano, azzurro, gelsomino,solo per dirne alcuni −, molti italiani ignorano totalmente questo fatto. Serviva un nome positivo ed ecco che la mia scelta è caduta su Persepolis. Userò questo spazio per provare a raccontare una cultura antica, profonda, profumata, sognatrice, passionale e fortemente identitaria come quella iraniana attraverso dei racconti autobiografici, ispirata dal fumetto di Marjan Satrapi.

Persepolis è stato disegnato dalla stessa autrice e pubblicato in francese nel 2000. Ha un tratto semplice, deciso, in bianco e nero. È la storia della sua vita. Parla di come l’infanzia di una bambina in una famiglia colta, benestante e con idee progressiste, affronta una rivoluzione armata contro la monarchia dello scià, lo stabilirsi del regime della repubblica islamica e subito dopo la guerra contro l’Iraq. 

La nostra piccola Marjan segue gli ideali familiari improntati sulla libertà di espressione e di pensiero. Fin da piccola inizia a leggere e viene a contatto con le idee comuniste dello zio, che diventerà il suo punto di riferimento, e per le quali successivamente morirà perseguitato con l’instaurarsi del regime dittatoriale estremista e religioso. Marjan impara presto che in Iran le idee e le ideologie costano care, sia nel difenderle che nel subirle. 

I genitori, dopo lo scoppio della guerra e la crescente ferocia delle vessazioni subite dal regime iraniano, decidono che per la sicurezza della figlia sia meglio che lasci l’Iran e vada a studiare in Austria. La scelta è molto dolorosa. Intorno a loro parenti ed amici scappano da una situazione instabile e violenta, preferendo emigrare. Gli stessi genitori si chiedono se sia il caso che anche loro lascino il paese. Ma a quale prezzo? Spesso gli immigranti non ce la fanno a ricominciare da capo una vita dopo aver perso tutto, soprattutto la posizione sociale ed economica che per anni li ha identificati all’interno della propria comunità e paese.
Andare in Europa, da sola, a 14 anni, nel 1984, non fu per niente facile per Marjan. Qui il racconto si fa gelido come lo sfondo dell’inverno rigido di una Vienna innevata. Non è facile nell’età critica dell’adolescenza trovare dei punti di riferimento quando si è soli. Marjan lo sperimenta cercando una sua identità all’interno di una società laica e relativista, completamente diversa da quella iraniana.

Mentre in Iran il regime ha un controllo stretto su ogni aspetto della vita di un iraniano, su come deve pensare, a cosa credere, come comportarsi e vestire, in Austria no! In Austria non si muore per credere in un ideale, in Austria si ha la libertà di vestirsi come si vuole, senza aver paura di essere imprigionati e torturati; in Austria non importa a nessuno come vivi la tua sessualità e come usi il tuo corpo. La presenza di Marjan è totalmente indifferente al governo e anche al resto della gente: sperimenta così una solitudine mai provate prima. La carenza di affetto la porta a modificare il suo aspetto fisco, i suoi modi di parlare e man mano, durante la sua permanenza a Vienna, abbraccia ideali lontani da lei, pur di sentirsi accettata dai vari gruppi sociali che incontra. Pian piano Marjan perde se stessa, non si riconosce più. Si perde in un mare di sensi di colpa: quello di vivere al sicuro mentre i suoi cari sono in pericolo di vita in un paese in piena guerra e sotto le angherie di una crudele dittatura; quello di aver tradito gli ideali in cui la sua famiglia crede e per cui suo zio è morto; quello di vergognarsi di essere un’iraniana e far finta di essere quello che non è, in un ambiente ostile e poco inclusivo, per non subire episodi di razzismo. All’età di 18 anni Marjan non ce la fa più … Ma ha un posto dove tornare: la casa dei suoi genitori che l’aspettano a braccia aperte. 

La seconda parte del libro è ambienta in Iran: qui Marjan, ormai adulta, dopo il trauma del ritorno, decide di studiare e di riprendere a vivere. Niente è facile. Scopre di aver adottato una mentalità europea, totalmente differente dalle sue coetanee e l’Iran è diventato sempre più cupo, irriconoscibile e insostenibile.

Dopo aver completato gli studi in arte, sciolto un matrimonio che non funzionava, ma soprattutto quando finalmente sa chi è e cosa vuole dalla vita, Marjan matura la decisione di andarsene via definitivamente. Lascia l’Iran.

Persepolis è dunque la storia di una crescita e della formazione di una donna libera, di come la sua famiglia, la società e gli accadimenti politici del suo paese abbiano influito sullo sviluppo di una bambina diventata donna. La prima e ultima vignetta del fumetto sono emblematiche di questo percorso. La prima scena inizia con una bambina costretta improvvisamente a portare il velo e finisce con una donna che sceglie la libertà, capace di pagarne il prezzo. 

In Italia uscì solo la prima parte del primo volume di Persepolis nel 2002; il fumetto in francese era diviso invece in quattro volumi. Mi ricordo come fosse ieri l’eccitazione di mia sorella nel leggere una storia che parlava esattamente di lei! Stessa età, stessa città, stesso periodo storico.

Per un’iraniana emigrata a 14 anni in Italia leggere Persepolis è stata una profonda consolazione: quando un’espressione artistica (poco importa che sia un libro, un fumetto, un quadro o un film) racconta la tua stessa storia è come se ad un tratto essa stessa diventi reale agli occhi degli altri. Gli dona la dignità di esistere. I dolori provati diventano più sopportabili e si raggiunge quasi un senso di liberazione. Il libro ha aiutato a lenire le ferite, relativizzare il dolore e far pace con la propria storia.
La storia di una vita, che è stata in qualche modo accettata, si è trasformata così in un patrimonio di tutti e in una memoria da cui un intero paese può attingere.

Forse uno degli obbiettivi del libro era sicuramente far conoscere al mondo cosa fosse accaduto in Iran e agli Iraniani negli ultimi 50 anni. Penso però che questi tipi di testi siano soprattutto per gli Iraniani emigrati: li aiutano a ritrovare la loro identità. 

L’attaccamento di mia sorella a questo fumetto era tale che iniziò a regalarlo a destra e manca per paura che non traducessero la restante parte dal francese per scarso interesse da parte del pubblico. Ma per fortuna Persepolis fu un grande successo e ne fecero presto un lungometraggio. Anche per me fu importante. Mi ricordo quando andai a vedere al cinema il film con una mia cara amica e provai una forte emozione al sentire pronunciare il mio nome sul grande schermo. È stato come mostrare che il mio nome strano e difficile da pronunciare in Italia, è invece un nome comune e legittimo in Iran, tanto da essere citato in un film. Questa consapevolezza ha messo un poco di terra sotto i miei piedi. 

© Persepolis di Marjane Satrapi - ed. Rizzoli Lizard  2023