Ad un mese dalla brusca crisi economica che ha investito la Turchia, osservando dall’esterno, le aspettative sono sicuramente più cupe rispetto alla realtà del quotidiano. Certamente aleggia il timore di un tracollo simile a quello del 2001 – quando a risanare le finanze è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale – e il costante fastidio verso le manovre americane. L’ossessione del continuo apprezzamento del dollaro sulla lira fa da corollario a un sentimento comune insito nella psicologia sociale del Paese: la sfiducia verso il partner americano, che storicamente all’evenienza ha colpito più volte la Mezzaluna e il suo popolo. Da ultimo la rappresaglia economica che suggella il già perdurante braccio di ferro su determinate questioni di politica interna, con riflessi anche regionali. La mancata estradizione di Fetullah Gülen, il mullah autoesiliatosi in Pensylvania sin dagli anni ‘90 e considerato da Ankara l’architetto del tentato golpe del 2016, a cui è conseguito il fermo in carcere a Izmir del pastore americano Brunson. A poco sono servite le negoziazioni per i rispettivi rilasci, a cui si aggiungono anche le forti discrepanze strategiche in Siria e il supporto accordato dagli USA alle milizie curde del PYG, riconosciute come costola siriana del PKK. Ma non è questo che preoccupa davvero le persone comuni: è come se ognuno avesse una propria teoria e fornisse una propria previsione. «Il dollaro continua a salire, entro l’anno nuovo ci sarà un tracollo» si sente spesso ripetere e nelle facce permane quel sorriso tipico di chi si affida al destino e che poco può fare se c’è un disegno prestabilito. «Inşallah iyi olacak» (se Dio vuole andrà bene), sento ripetere. In fondo è una formula che si usa spesso da queste parti: ci si rimette alla volontà del Signore, non c’è altro da fare. E con la stessa calma e fede di chi, pur avendo preoccupazioni, sa che comunque le crisi si attraversano e si superano – come la storia del Paese ha spesso dimostrato – si attende. Il parrucchiere Süleyman bey, in un sabato pomeriggio come tanti, è seduto su una poltrona del suo negozio attendendo che arrivi la prima cliente. «È sabato, di solito è pieno, ti ricordi?», dice. «La crisi si vede...». Dello stesso avviso Ahmet bey, che consegna le damigiane di acqua a domicilio. Lui i prezzi non li ha alzati a seguito del crescente tasso di inflazione, ma mostra un sorriso preoccupato. «Che faremo quando a fine anno ci sarà una crisi ancora peggiore?» e aggiunge «perchè noi dobbiamo essere dipendenti dal dollaro?». Non è proprio dello stesso avviso Sultan hanım, la sarta che dentro al suo piccolo laboratorio nascosto in un pasaj nel centro di Ankara continua a ricevere le clienti e a produrre capi da lei ideati. «Si lavora come sempre», afferma con lo stesso sorriso che sfoggia ogni giorno, quello di chi fa del mestiere un’arte e del lavoro il principio di vita. Anche un’altra donna, Esma, manda avanti la sua attività senza particolari contraccolpi, ma con l’interrogativo che mi rivolge quasi sempre: «Che succederà al dollaro, si alzerà ancora?». Come se l’opinione di un’europea possa essere rassicurante. Forse è un discorso troppo lungo da affrontare e probabilmente a poco servono le analisi quando in gioco c’è il sentimento comune. Fatto sta che la grandezza di questo Paese si misura nell’animo del suo popolo, che in certe sfumature fa trapelare un senso di insicurezza, ben mascherato dall’orgoglio nazionalista. La calma, quella di chi sa attendere e accettare ogni cosa, perché in fondo ogni cosa è kısmet – se è scritto che succeda, succederà – è la peculiarità e vera forza dei nostri amici turchi.
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