Ce ne andiamo da Iskenderun (Turchia), con il cuore pieno di gratitudine per la cura ricevuta.
E pensare che fino a due settimane fa ignoravamo che proprio qui ci fosse così tanta vita. Si allarga lo sguardo e si aprono nuovi orizzonti. Ora anche qui è casa. Un posto dove poter tornare e sapere che ci sono degli amici, una comunità dove trovare pace. Padre Paolo in un’omelia ha detto che solo se le radici sono autentiche è possibile generare e far fiorire vita.
In questi giorni eravamo ospiti nella comunità nata intorno al vescovo dell'Anatolia, mons. Paolo Bizzeti e del vicario p. Antuan Ilgıt, l’unico gesuita turco. La loro presenza è fondamentale punto di riferimento per i cattolici in Anatolia, regione geografica che comprende la metà orientale del territorio nazionale. Padre Paolo – così si fa chiamare – ha una vocazione nel prendersi cura, ci ha fatto sentire a casa dedicandoci ore di passeggiate nella sua Turchia ferita, ma anche preparandoci, con l’immancabile grembiule arancione, calde e gustose cene in spirito di autentica condivisone. Padre Antuan, sorridente e attento, è subito amico di chi passa di qui. Accanto a loro il clima è disteso e sereno.
Intorno a loro, con gli anni, si sono aggiunte persone, con storie diverse, che hanno deciso di fermarsi in questo posto e di condividere un pezzo di cammino. Aghi è una focolarina ungherese, molto dolce nei modi, dedita all’insegnamento dell’italiano ad alcuni ragazzi turchi. Luca si occupa con mitezza dei pellegrinaggi che con Padre Bizzeti organizzano per tutta la Turchia più volte all’anno: si tratta di proposte dell'associazione AMO – Amici del Medio Oriente, che promuove corsi e itinerari nelle terre bibliche. Da dicembre sono presenti a Iskenderun tre suore contemplative della Congregazione del Verbo Incarnato, provenienti dalla Nuova Zelanda e dall’Argentina. Poi c'è il parroco, don Dariush, un allegro polacco. Non meno importanti sono i cristiani turchi che lavorano alla Caritas. Tra questi, la dolce famiglia composta dalla cuoca Jülide e Sezar, che insieme ad altri si occupa della distribuzione dei pacchi di cibo, con il figlio Robin che in questo periodo li aiuta a svolgere le diverse mansioni.
Siamo a Iskenderun, conosciuta in italiano come Alessandretta, città di circa trecentomila abitanti, collocata nel sud della Turchia, sul mare che va verso Antiochia. Il terremoto del 6 febbraio ha colpito duramente quest’area, provocando almeno cinquantamila morti. Ma i dispersi sono ancora molti. Dicono che in un terremoto i feriti siano almeno tre volte i morti, quindi tantissimi, la maggior parte rimasti schiacciati e quindi segnati per sempre.
Intere spianate di terra ospitano le macerie che man mano vengono spostate dalle aree abitate. Alcune sono ancora lì, nessuno sa cosa c’è sotto, ma lo sospettano soprattutto laddove proviene quell'inconfondibile odore terrificante... Ci hanno detto che nei giorni successivi al terremoto era il caos. Le strade piene di macerie, l’aria piena di polvere e per centinaia di metri il mare era entrato in mezzo ai palazzi con acqua e sabbia. Non c’erano più sensi di marcia perché molte strade erano bloccate dalle macerie. Anche la cattedrale del Vicariato dell'Anatolia era crollata. Sono rimaste in piedi la facciata e l’abside, il resto ha ceduto negli interminabili 105 secondi della prima scossa.
Nonostante tutto questo, i volti non comunicano disperazione, come se insieme riuscissero a consolarsi nell’aver sperimentato un destino comune. Chi si è salvato, si rallegra per la sua buona sorte e ha poco tempo per piangere gli amici persi, come spinto dal risparmiare le energie necessarie per ricominciare una vita normale. Chi ha perso la casa o ha paura di tornare a dormire nella propria, vive nelle tendopoli sparse in tutta l’area. I poveri si sono moltiplicati e al calar del sole fanno la fila per ricevere il loro pasto.
Tutto torna alla vita, le case semidistrutte vengono abbattute, chi aveva la vetrina del suo negozio proprio in quel palazzo, ha perso il lavoro. Tutto il resto riprende la sua attività.
Siamo partiti senza sapere che cosa ci sarebbe aspettato. Abbiamo lavorato con Caritas Anatolia, capitanata dal «mitico» John. Smontavamo pacchi di ranci dell’esercito per catalogare e separare le scatolette con maiale da quelle senza, per rispettare le usanze delle persone di fede musulmana. È stato faticoso, ma è stato bello, anche senza sapere/vedere chi riceverà i pacchi.
In conclusione, sapevamo che qualcosa da fare c’era, ma non immaginavamo che oltre a questo «fare», ciò che avrebbe dato senso al nostro star lì sarebbe stata una comunità che condivide uno sguardo. Se si parte con l’idea di salvare o fare la carità, non si è capito niente. Per mettere a fuoco questo è stata determinante l’omelia di Padre Paolo proprio nel giorno del nostro arrivo: san Pietro, invece di fare la carità a un uomo che gli chiede aiuto, in nome di Gesù, lo aiuta ad alzarsi e gli dice di camminare. Porge la mano affinché l’uomo trovi il coraggio di rialzarsi e di farcela da solo. Tutto questo è ancora più dirompente in una comunità che, con lo sforzo di molti, accoglie e dirige, senza vantare di aver cambiato la vita di nessuno.
Al ritorno sono molte le domande che accompagnano lo scontro frontale con la propria solita quotidianità. Perché lì siamo stati così bene? Perché qui ci facciamo travolgere dalle preoccupazioni inutili? Quali tralci potare dalla nostra vite perché la pianta dia i frutti della vita vera, il vino che rallegra il banchetto?
Siamo arrivati per dare, torniamo che abbiamo ricevuto. Arricchiti dalla vita vera, che non si (pre)occupa delle cose futili ma cerca l’essenziale nell’incontro con l’altro, nello stare in relazione. C’è poca pretesa di straordinarietà, di cui invece siamo abituati a contaminare la nostra quotidianità. E nella semplicità del quotidiano, c’è una parvenza di santità.