C’è un mistero nei crolli della vita, che siano fisici, psichici, spirituali, che non sai da dove vengono e non puoi sapere dove conducono. Ci sono faglie nel nostro cuore che spesso nemmeno sappiamo di avere. E non tanto le caratteristiche più o meno belle del nostro carattere e psiche, quelle sono piuttosto il paesaggio interiore in cui viviamo, e quello è così com’è. Ci sono piuttosto faglie che potrebbero rompersi quando meno te lo aspetti, e ciò che ti sembrava meraviglioso crolla in un centinaio di secondi. Come capita al re Davide, quando perde il suo amico Gionata, prezioso «più che amore di donna», e qualcosa crolla dentro di lui. E iniziano i periodi bui della vita, fatti di devastazione, pianti e durezza.
Ma c'è un mistero nella vita di ognuno (ancor più significativo se letto da cristiani) che laddove c'è qualcosa che crolla, c’è qualcos’altro dietro l’angolo che è pronto a rinascere. Passa l’angoscia e torni a vederci qualcosa, e forse anche a contemplare qualcosa che avevi smarrito. Come Davide torna a «vedere» il Signore dopo il crollo con Betsabea.
Son passati ormai 2 mesi dal terremoto in Turchia, la morte ha preso il suo spazio e sembra ritirarsi, la vita è andata avanti e centinaia di migliaia di esistenze hanno cambiato rotta, chi in meglio chi in peggio, solo Dio lo sa, forse neanche chi lo vive se ne è reso del tutto conto.
Nel mentre, cioè prima che un po’ di luce torni, tra un forte grido e un altro, cerchi appiglio per trovare senso nella vita e Dio si mostra sempre là: nel tuo cuore, nell’incontro con quelli che ami-ti amano, e nella vita di tutti i giorni, dove tutto può diventare sacramento.
Ad Antiochia la morte ha steso fitto il suo manto, sono crollati migliaia di palazzi, case, fabbriche, infrastrutture, tubi, fogne, impianti, strade, porti, città, ma la gente continua a vivere e sembra lo faccia con una specie di strana serenità. L’illuminismo, che ha schiacciato l’uomo nella scatola del suo cervello, là è rimasto un po’ in ombra. Sembra che chi è avvezzo ad accettare in Dio la volontà della vita, spesso poi è anche capace di scorgere nella vita, la volontà di Dio. E per questo sorride, fino anche a gioire.
Là ad Antiochia c’è una fede nascosta ai riflettori, vissuta giorno per giorno dai pochi cristiani presenti, che passa dal celebrare messe, dal gioire delle feste religiose dei fratelli ortodossi o anche dei cugini musulmani, specialmente se questi sono mogli o figli o parenti o amici, perché l’ecumenismo vero è quello incarnato, ancor prima di quello teologico. Una fede che è curare chi fa già parte della piccola comunità cristiana e accogliere quei pochi convertiti che via via compaiono nel cammino. In questa umile pochezza di numeri si ha la percezione che si manifesti la grandezza di Dio, e tutto basta.
Là ad Antiochia c’è poi una speranza che sono i fratelli che insieme fanno casa nel Vicariato, una compagnia di Gesù in senso ampio e che, senza dire o fare chissà che, sanno che sono dono di Dio l’uno per l’altro. Una domus ecclesiae simile alle origini, dove stanno consacrati, laici, sposi, pellegrini, giovani, adulti, tutti intorno a un altare invisibile che è l’incontro verace che hanno avuto nella loro vita con il Risorto o che sperano di avere presto. Non hanno la pretesa di salvare nessuno, sperano di salvare se stessi, condividono una quotidianità e assumono uno sguardo di bene, di cura, di gioia, di simpatia, di gusto per la vita, di rilettura delle fatiche, di lavoro per il bene, di amore per Dio. Niente di ciò che viene fatto in sé è di per sé salvante, nemmeno le opere di bene, ma lo spirito con cui viene fatto rende tutto salvifico, per chi lo fa e per chi lo riceve.
C’è amore là ad Antiochia, cioè il lavoro che ognuno fa a suo modo là dove è chiamato, a volte senza sapere cosa li aspetta il giorno dopo. Una carità che è presente anche con la «C» maiuscola, una Caritas che si è riorganizzata sapientemente appena in tempo per affrontare l’emergenza terremoto, dando frutti come Giuseppe figlio di Giacobbe fece in Egitto, in modo umile, pulito e abbondante: pacchi e aiuti da tutto il mondo, gente che viene a bussare fisicamente alla porta, poche persone tra lavoratori e volontari, mossi a com-passione o a con-vocazione, un paio di auto per portare cose, sguardi e presenze solo laddove il Governo turco vuole e poco oltre… persone a migliaia, incontri, colori, animali, galline, odori, respiri, giardinaggio, dolori, macerie, pasti, progetti, scatole spagnole, partite di calcio, tramonti, canti di pappagalli, albe… amore.
Una comunità ad Antiochia che vive fede, speranza e carità incarnata più che mai e che nutre anzitutto se stessa in Dio e, come normale conseguenza, gli altri. Per noi cristiani non sono infatti le opere o un fine a unire le persone, piuttosto quando le persone sono unite in comunione allora esprimono un’opera e raggiungono un fine.
È crollata la chiesa cristiana ad Alessandretta ed è stato un colpo terribile. Ma in realtà sembra che ciò non sia decisivo per chi quella chiesa l’ha vissuta per anni, quasi che il centro del loro agire non sia l’edificio fisico o la struttura organizzativa ma l’edificio spirituale che loro stessi hanno costruito, più o meno consapevoli, nel tempo. Sì, ne sono abbattuti e affranti ma ciò non gli impedisce di continuare a gioire e a generare vita perché nei loro cuori si sono scoperte le fondamenta di una fede che non ha subito crolli, anzi, caso mai, nella prova, ha ricevuto consolidamenti e si può aprire, così alleggerita, a nuove prospettive impensabili.
Ci sono crolli nella vita, che ti dicono finalmente chi sei.