Hattusa: una capitale dimentıcata che continua a svelare i suoi segreti
Nei primi anni del 1830, Charles Texier, uno dei viaggiatori più importanti in Anatolia di quel periodo, si preparava ad intraprendere una spedizione in Oriente. Il viaggiatore francese, che oggi si ricorda per la sua celebre opera in vari volumi «Description de l’Asie Mineure», desiderava trovare la famosa città dei galati: Tavium. Il suo viaggio lo portò in un piccolo villaggio dell’Anatolia centrale, allora chiamato «Boğazköy»; rimase molto sorpreso quando lo portarono a vedere alcune rovine molto strane di dimensioni enormi − come se fossero stati dei giganti a costruirle – con delle porte con raffigurazioni molto diverse come stile da quelle conosciute fino a quel tempo. Tutto quello che vide lo fece pensare: «Dev’essere stata una città grande quanto Atene nel suo massimo splendore». Comunque lo aspettava un’altra sorpresa: rimase sbalordito quando lo portarono – con un cammino a piedi di due ore – dentro una massa di rocce dove c’erano decine di figure in bassorilievo che sembravano degli dèi ignoti durante una processione. Texier alla fine decise che quelle rovine non potevano essere di Tavium ma di Pteria, dove aveva combattuto Creso, re della Lidia, contro Ciro il Grande, re della Persia.
Ci volle ancora qualche decennio per poter identificare quelle rovine come Hattusa, la capitale del popolo ittita. Nel 1880, lo studioso britannico Archibald Henry Sayce, all’età di solo 34 anni, in una conferenza che si tenne a Londra per la Società dell’Archeologia Biblica, annunciò che quelle rovine visitate prima da Texier e poi da tanti altri viaggiatori dovevano appartenere al popolo ittita. Questa tesi creò tante dispute, perchè nella Bibbia gli ittiti erano citati solo tra i popoli di Canaan e ritenuti di poca importanza: «gli Amaleciti abitano la regione di Negheb; gli Ittiti, i Gebusei e gli Amorrei le montagne; i Cananei abitano presso il mare e lungo la riva del Giordano» ( Nm 29 ). Comunque le prove archeologiche, ottenute prima con la scoperta dell’archivio di Tell-el Amarna in Egitto e poi ovviamente con l’inizio degli scavi archeologici ad Hattusa da parte di Hugo Winkler nel 1906, non lasciarono nessun dubbio: quel sito era realmente la capitale del grande impero ittita, fino a quel tempo considerata solo come un’etnia secondaria in terra cananea.
Oggi la città di Hattusa viene ancora scavata da archeologi tedeschi e continua ad essere uno dei siti più importanti del Paese. Il primo impatto del visitatore con la città è un esempio di archeologia sperimentale, per la parte ristrutturata delle mura di 65 metri. Siccome le mura, come i templi e le case, erano costruite su un basamento di pietra con mattoni fatti di argilla e paglia, non si sono conservate fino ai nostri giorni. Con un esperimento del genere, non solo si fa capire al visitatore le dimensioni impressionanti delle mura, ma si cerca di capire il comportamento del materiale di fronte a condizioni naturali.
Hattusa è un sito talmente grande (180 ettari, 100 volte più grande del sito archeologico di Troia, per intenderci) che si visita in auto con varie soste. La prima tappa è il grande tempio: il più importante centro religioso del sito. Ci si può fermare per vedere il grande palazzo dei re ittiti e le tre imponenti porte della città: la porta dei leoni, che prende questo nome dai due leoni scolpiti ai lati per motivi apotropaici; la porta del re, dove si vede il rilievo di un dio ritenuto un re, e la porta delle sfingi, con la pusterla. La parte più interessante della visita è costituita da questa pusterla.
Si tratta di una pusterla (un tunnel sotto terra costruito con la tecnica di chiave di volta che finisce con una porta che conduce fuori dalla città) di 71 metri, molto impressionante, e il cui scopo è ancora in discussione. Sopra la pusterla si trova la porta delle sfingi costruita dopo aver creato una collina artificiale con la terra presa dalla valle di fronte; in effetti quando si esce fuori dalla pusterla si capisce subito che scavando la valle e costruendo sopra una collina con quel materiale, hanno ottenuto l’effetto ottico di farla sembrare ancora più alta per chi veniva da quella direzione. Circa venti/trenta anni fa, gli archeologi cercarono di spiegare la funzione della pusterla, attribuendole motivi di sicurezza: ipotizzarono che i soldati ittiti uscivano improvvisamente per attaccare il nemico che assediava la città. Ma è ovvio che questa spiegazione non è molto convincente, visto che la porta è visibile da tutte le direzioni.
Il 17 agosto del 2022, un archeologo turco che voleva fare delle fotografie con i suoi studenti, ha fatto una scoperta molto interessante: ha identificato dei geroglifici ittiti – diversi da quelli egiziani – (249 in tutto, risalenti a 3.500 anni fa) sulle pietre della pusterla alle quali dal 1906 (data dell’inizio degli scavi) nessuno aveva fatto attenzione! Dopo uno studio minuzioso, gli esperti hanno potuto leggere verso la fine del 2023 alcune parole: «Arisadu (Arisciadu?), la montagna di Tudhalia». Il direttore degli scavi di Hattusa, il Prof. Andreas Schachner, pensa che Arisadu sia la persona che fece costruire la pusterla. La montagna di Tudhalia era una montagna mitica, ma forse anche vera, talmente importante, che quattro re ittiti vennero chiamati con il nome di questa montagna, e si ipotizza che quella pusterla potrebbe essere un’imitazione della via sacra che conduceva alla montagna di Tudhalia (simbolicamente rappresentata dalla collina superiore dove è collocata la porta delle sfingi). Comunque sia, si capisce che la pusterla aveva una funzione più cerimoniale che difesiva. La porta della pusterla guarda esattamente a nord dove si vedono le stelle che non scompaiono mai durante la notte.
In effetti un altro studioso, Eberhard Zangger, geoarcheologo svizzero e fondatore di «Luwian Studies» a Zurigo, ha dimostrato di recente (con l’aiuto dell’astronoma Rita Gautschy) che le porte, i templi e le mura di Hattusa sono posizionate secondo i movimenti celesti tra cui equinozi e solstizi, cosa che solo 20 anni fa non si sapeva.
Eberhard Zangger è anche il creatore di una nuova tesi molto interessante, con la quale si riesce a spiegare la funzione di quel santuario tra le rocce dove ci sono quelle figure scavate in processione che avevano tanto affascinato Charles Texier.
Quel santuario all’aria aperta, chiamato Yazılıkaya, si pensa fosse il luogo sacro dove si festeggiava la festa del nuovo anno o l’arrivo della primavera. Ma secondo Zangger era anche un sistema molto efficiente di calendario. Avere un calendario era molto importante anche nel passato per poter prevedere le fasi dei lavori agricoli e stabilire le date esatte delle feste. Se si considera che gli ittiti avevano 165 feste religiose, si può capire la precisione con la quale doveva essere calcolato il tempo.
Si tratta di un’area aperta tra le rocce (si può dire una grotta senza soffitto, o meglio un kanyon) che esisteva almeno dal XV secolo a.C., ma i rilievi sono aggiunti nel 1.230 a.C. durante il regno di Tudhaliya IV, la cui raffigurazione è rappresentata sulla parete destra prima della processione delle dee. Entrando nel santuario troviamo a sinistra un gruppo di 12 divinità con i tipici copricapi con la punta; si prosegue con un altro gruppo di 30 divinità, tutti maschi. A destra, invece, dopo il rilievo di Tudhaliya IV, vediamo 19 dee (tutte femmine) in processione; tutti gli dèi e le dee sulle due pareti a est ed ovest sembrano procedere verso la parete nord dove sono disegnati gli dèi più importanti del pantheon ittita: a sinistra Tesup (Teshup), il dio del cielo; a destra sua moglie Hebat, dea solare, con dietro i figli.
Secondo Zangger, i primi dodici dèi a sinistra simboleggiano i dodici mesi lunari, mentre i trenta che arrivano dopo, sono i giorni del mese lunare; le diciannove dee della parete destra, invece, simboleggiano gli anni. Si arriva alla conclusione che qui venivano sincronizzati il calendario lunare e il calendario solare in diciannove anni. Un ciclo di diciannove anni solari, il cosidetto Enneadecaeteris (più avanti verrà conosciuto come il ciclo metonico – dal nome dell’astronomo greco Metone) consiste in diciannove volte dodici mesi lunari più sette mesi intercalari che fanno 235 mesi, oppure 6.940 giorni. Sorprendentemente, questo ciclo fa una deviazione di solo 2h, 5’, 20’’ nei diciannove anni solari.
Queste affascinanti scoperte degli ultimi anni hanno portato a un’altra fase gli studi sull’Ittitologia.
Hattusa, dopo più di un secolo di scavi e studi, continua a rivelarci i suoi segreti. Considerando che questa affascinante capitale di un impero sconosciuto, oggi completamente scomparso, dista solo due ore e mezza da Ankara e tre ore dalla Cappadocia, sicuramente varrebbe la pena inserirla nei programmi di viaggio. Un’altra perla da scoprire nello scrigno dei tesori della Turchia!